Lello Arena: «Quei giorni al bar con Troisi ridendo di tutto»

Il comico è tornato in tv, nel cast di "Made in Sud", ma non dimentica gli anni vissuti insieme con l’amico Massimo

Lello Arena
2 Luglio 2020 alle 08:55

Fa ridere anche se sta in silenzio. Passa il tempo ma Lello Arena mantiene sempre quella carica comica giocata tra ironia e farsa. Grazie ai tratti somatici e a quella inconfondibile mimica facciale gli viene facile riproporre ogni tipo di smorfia. «La verità è che il mio volto ha i superpoteri. Il mio fisico ha contribuito alla mia fortuna» scherza Lello rompendo il ghiaccio e aprendo la strada alle domande più spontanee.

A chi deve dire grazie per la sua faccia da comico?
«Ai miei genitori, non solo per un fatto genetico. Erano due straordinari clown naturali che hanno trascorso la vita impegnandosi a far divertire gli altri. Si organizzavano le feste per poterli avere come ospiti. Meno male che non facevano parte del mondo dello spettacolo, altrimenti mi sarei dovuto scontrare con due mostri…».

Da anni fa l’autore per altri comici di “Made in Sud”. Cosa l’ha convinta a salire sul palco insieme con Paolo Caiazzo per il siparietto dei due vecchietti sulla panchina?
«Questa gag l’avevamo sperimentata in uno spettacolo di Paolo al teatro Augusteo di Napoli anche se lui utilizzava soltanto la mia voce fuori campo. In quella circostanza gli esiti furono felici. Il produttore Nando Mormone qualche mese fa mi ha chiesto se avessi voglia di fare sei puntate a “Made in Sud” e ho accettato».

Nelle gag comiche il distanziamento è penalizzante?
«Innanzitutto mancano i boati del pubblico in sala. Siamo una banda di 50 attori abituati a stare uno addosso all’altro (sorride). Talvolta chiudiamo la porta e ci abbracciamo in modo clandestino perché non si può negare una consuetudine di anni e di affetti… Scherzi a parte, questo gruppo dimostra che si può lavorare senza ammalarsi. Il danno peggiore sarebbe stato non realizzare un’edizione post Covid. Se due milioni e mezzo vedono lo spettacolo è sintomatico del bisogno di evasione. Siamo stati per giorni e giorni ad aspettare il bollettino delle 18 con cui la Protezione civile ci aggiornava sul numero delle vittime del coronavirus. Ora la gente ha bisogno di evadere».

Dopo un periodo di grande ribalta televisiva, si è poi allontanato dal piccolo schermo. Perché?
«Con l’età si preferisce lavorare con persone di talento. C’è una televisione nella quale non mi rivedo. Mentre apprezzo molto i programmi garbati di Fabio Fazio. Accetto sempre volentieri l’invito degli amici di “Propaganda Live”. Ho rifiutato ruoli perché non erano nelle mie corde. Ragiono da spettatore di me stesso e questo mi fa essere critico».

Come è cambiato il modo di far ridere in tv e al cinema?
«Non è cambiato. In una sala, davanti all’interpretazione drammatica di un attore, non sai quali emozioni prova il tuo vicino di posto. Se invece un comico sbaglia battuta, è una tragedia. Ho incontrato mostri del cinema e ho alle spalle una partenza clamorosa con un gigante come Massimo Troisi».

Al di là della retorica, qual è la vera eredità artistica e umana che Troisi ci ha lasciato?
«Purtroppo le eredità non si lasciano. Resta solo quello che lui ha fatto negli anni in cui ha vissuto. Questo vale per Totò, De Filippo e altri. Il mio grande rimpianto è che non sono mai riuscito a sentirmi a mio agio con nessun altro così come accadeva con Massimo. Sento sempre e forte la sua mancanza».

Eravate molto legati. Le capita di sognarlo?
«Spesso. E sempre in occasioni in cui mi prende in giro e mi stuzzica. Come faceva, nella realtà, insieme con Renzo Arbore. Ero il loro gioco preferito».

La prendevano in giro perché?
«Ogni scusa era buona. Se al bar prendevo il caffè o l’aranciata era l’occasione per far partire una risata o una gag su di me. Comunque ad Arbore, io e tutta La Smorfia saremo sempre riconoscenti. Baudo all’inizio ci ha dato una mano. Arbore ci ha accompagnato e seguito».

Il trio La Smorfia con Troisi ed Enzo Decaro nacque nel 1977.
«Qualche anno fa ho riproposto qualche nostro vecchio sketch con Ficarra e Picone e ci siamo divertiti. Per i 50 anni dalla nascita del trio immagino uno spettacolo in cui tanti comici rivisitano il nostro repertorio».

È vero che nel trio era lei ad avere successo con le donne?
«Ma no! Suscitavo la tenerezza di quello che a Napoli si dice “scorfaniello” abbandonato. Ai nostri spettacoli le prime file erano occupate dalle ragazzine che venivano solo per Decaro. E Massimo aveva un grande fascino».

E quella vestaglia indossata nel celebre sketch dell’Annunciazione ce l’ha ancora?
«Era di mia madre. È conservata nel museo dei costumi degli attori di Firenze».

Sua figlia Valentina ha voluto seguire le sue orme. Orgoglioso?
«Vive e lavora a Londra. Ogni volta che vado a vedere un suo spettacolo, mi partono le coronarie. È brava. Si dà da fare…».

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