Marco Confortola: «Io che cammino lassù dove l’aria è sottile…»

L’alpinista arriva su Focus per raccontare la sua incredibile storia fatta di fatica, sacrificio e paura

Marco Confortola: «La montagna va “letta” per evitare i pericoli. A volte è meglio tornare indietro perché non hai margini di errore»
3 Settembre 2020 alle 10:04

In teoria avrei un appuntamento telefonico con Marco Confortola alle 18.30. Dobbiamo parlare di “Dalle Alpi al tetto del mondo: in montagna con Marco Confortola”: è il programma che racconta la sua vita e che vedremo in onda su Focus (canale 35) dal 6 settembre.

Ma alle 17 il telefono squilla, è lui: «Ciao sono Marco, ti spiace se la facciamo adesso? Sai, oggi ero in montagna a scalare, mi sono alzato alle 2.30 del mattino. E adesso vorrei andare a dormire». Sembrano cose folli per chi non conosce bene il mondo dell’alpinismo. Invece per Marco, uno che ha scalato 11 delle 14 montagne più alte del mondo (tutte sopra gli ottomila metri), è la normalità. Perché l’alpinismo è uno sport di sofferenza, sacrificio, paura: «Perché lo faccio? Lo senti dentro e non puoi farne a meno. Per me è diventato una professione. D’altronde a 18 anni sono diventato l’allora più giovane guida alpina d’Europa».

Come mai hai deciso di raccontare la tua storia in tv?
«Ho avuto la fortuna di conoscere il direttore di Focus, Marco Costa, tramite un amico. Da lì è partito tutto. La cosa più bella di questo programma, però, è che non è concentrato solo su di me, ma anche sulla montagna e sui suoi custodi. Gli agricoltori, i malgari, i rifugisti, le guide alpine, i tecnici dell’elisoccorso: gente che vive e crede nella montagna».

E ti piace stare davanti alle telecamere?
«Con Mediaset si lavora bene, è un team giovane. Sono molto veloci, non sono “impacchettati” come altre televisioni. Sono sicuro che faremo altre cose insieme».

Quando stai scalando e guardi in basso, non ti viene mai paura?
«La paura va coccolata e allenata, perché è quella che ti salva la vita. C’è sempre il terrore di precipitare… Però è quella stessa paura che ti fa riflettere e, a volte, compiere un passettino indietro. Più volte su un ottomila ho rinunciato a pochi passi dalla vetta perché ero spaventato».

Come sul Dhaulagiri nel 2012…
«Sì. Stavo salendo al campo 2 di quella montagna con l’amico Mario Panzeri. A un certo punto ho percepito l’elettricità dell’aria: stava arrivando un temporale. Ci siamo spaventati, ma ho avuto la freddezza per decidere di tornare indietro. Fossimo rimasti lì, ce la saremmo vista molto brutta. Poi sul Dhaulagiri ci sono tornato nel 2017 e l’ho conquistato…».

Ti è mai capitato di essere in una situazione di pericolo e dire: «Non so cosa fare»?
«No. La cosa più difficile è proprio rimanere lucidi, soprattutto per chi come me scala senza l’ausilio di ossigeno. Sopra gli ottomila metri il nostro cervello si annebbia per la mancanza di ossigeno: si chiama ipossia. Io per fortuna metto la sicurezza davanti a tutto. Questa mattina ero con un cliente sulla Punta San Matteo (alta “solo” 3.678 metri, ndr). In cima c’era del ghiaccio vivo molto pericoloso e così siamo scesi subito usando corde e chiodi, con meno rischi».

Tra la tue scalate, la più drammatica è stata quella del K2 nel 2008. Dopo essere arrivato in vetta, lungo la discesa sei rimasto bloccato. In quell’occasione a causa di cadute e valanghe morirono 11 alpinisti. E tu per via del congelamento hai perso le dita dei piedi.
«È stata una mazzata. È una cosa che mentalmente e fisicamente mi ha sconvolto. Il medico che mi operò dopo l’amputazione mi disse: “Lei zoppicherà, non correrà più. Forse potrà sciare con degli scarponi speciali, si scordi gli ottomila”. Mi consigliò di andare dallo psicologo. Io piangendo risposi: “Io mi arrangio”. Ci ho messo un anno per imparare a camminare... Un anno... (respira profondamente, ndr). È stata la prima volta che ho provato invidia, per le persone che potevano camminare».

Però ti sei arrangiato.
«Lentamente ho ripreso. Prima le stampelle, poi due bastoni, poi un bastone solo… E poi via, senza niente. All’inizio giravo per il mio paese con le ginocchiere da pallavolista: continuavo a cadere. Ora scalo di nuovo, seppur con grandi problemi. Ho forti mal di schiena, soffro il freddo più di prima, soprattutto ai piedi. Sul Gasherbrum II lo scorso anno mi sono fermato 20 minuti a battere i piedi su un lastrone di granito per cercare di ridare loro vita. Per fortuna la microcircolazione è ripresa e ce l’ho fatta a salire in vetta. Ma anche lì stavo per tornare indietro».

Nel 2004 sei stato in cima all’Everest, la montagna più alta della Terra. Cosa si prova a guardarci da lassù?
«Tutti i problemi che possono esistere spariscono. Vedi la rotondità del pianeta. Nel bivacco improvvisato (una buca nella neve) sul K2 a 8.400 metri vedevo le stelle non solo sopra di me, ma anche sotto. Quella sensazione è unica, ti stordisce».

Tu sei anche un tecnico di elisoccorso. Nel 2017 sul Dhaulagiri hai salvato sette alpinisti rimasti bloccati tra i 5.600 e i 7.400 metri.
«È il soccorso più ardito mai fatto in Himalaya. Ero appena rientrato al campo dalla vetta del Dhaulagiri e mi hanno chiesto se potevo aiutare: ho accettato. Ero appeso all’elicottero, nel vuoto, sapevo di rischiare la vita. In operazioni del genere devi avere fiducia totale nel pilota e nel verricellista. E devi tenere duro».

Qual è l’impresa che ti ha soddisfatto di più?
«Scendere con gli sci la parete nord del Monte Ortles. Solo in due l’abbiamo fatta, io e un austriaco. È una parete che fa paura solo a guardarla, pensare di venire giù con gli sci è davvero da folli: non puoi sbagliare».

E quella che non rifaresti mai più?
«Il concatenamento in solitaria, slegato, di quattro montagne: l’Ortles, il Gran Zebrù, il Piccolo Zebrù e il Pizzo Tresero. Io abito lì vicino, in Valtellina, e ogni volta che le guardo mi dico: “Mai più”».

Invece cosa dici a tua moglie Silvia prima di partire per una scalata?
«Di non preoccuparsi, che torno presto. Per fortuna Silvia riesce a capire come mi sto allenando e quanto sono preparato. È una cosa bella, c’è veramente grande feeling».

Così è sopravvissuto al dramma sul K2

Il disastro del K2 è una delle peggiori tragedie della storia dell’alpinismo: 11 le vittime. Tutto avviene tra il 1° e il 2 agosto del 2008. Quel giorno una trentina di alpinisti puntano alla vetta, ma già in salita ci sono due vittime: il serbo Dren Mandić, per una caduta, e il suo portatore pakistano Jehan Baig, nel tentativo di recuperarlo. Arrivati in vetta nel tardo pomeriggio, Confortola e i suoi colleghi iniziano la discesa quando una valanga travolge il norvegese Rolf Bae, mentre poco dopo il francese Hugues D’Aubarede cade e il pakistano Meherban Karim sparisce. Alcuni riescono a scendere, ma altri, tra cui Confortola bivaccano a 8.400. La mattina dopo, Marco e compagni scendono. Trovati tre alpinisti coreani e due nepalesi in difficoltà, si fermano ad aiutarli. Qui l’irlandese Gerald McDonnell è travolto da un’altra valanga. Confortola, invece, crolla per la stanchezza lungo la discesa, ma viene soccorso dallo sherpa Pemba Gyalje. Un’ultima valanga, però, uccide i tre coreani e i due nepalesi. Marco, protetto da Pemba Gyalje, si salva ma perderà le dita dei piedi.

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