Massimo Ranieri: «La mia vita e i retroscena dei miei successi»

Il cantante apre per Sorrisi l’album dei ricordi: «In fondo non sono mai stato bambino»

3 Agosto 2017 alle 16:03

Massimo Ranieri è uno di quei personaggi a cui verrebbe istintivo dare del voi, per il rispetto che si deve ai grandi maestri. Apre la porta di casa: pantaloni di lino, le immancabili bretelle colorate, le scarpe da ginnastica, un sorriso accogliente. E davanti a un caffè, che lui prende amaro e sorseggia poco a poco lasciandolo freddare, la tentazione del voi si sbriciola in un attimo.

Massimo, la recente puntata di «Techetechetè» a lei dedicata ha ottenuto ascolti strepitosi. E su Raiuno il sabato sera a partire dal 5 agosto verranno riproposte le puntate del suo show «Sogno e son desto 3»: il pubblico la ama...
«Che bello. Sono sorpreso da tutto questo interesse per un vecchio personaggio. “Vecchio” lo metta tra virgolette, però (ride). Quanto a “Techetechetè”, piace perché si sogna con i ricordi che sono impressi nella memoria del nostro Paese. Nella puntata che mi riguardava c’erano immagini che non avevo mai visto, come quando giocavo a pallone. Fra l’altro fu in occasione di quella partita che incontrai Pier Paolo Pasolini».
Ce la racconta?
«Era il 1974, una delle tante partite cantanti contro discografici. Io avevo finito ed ero a bordo campo chinato ad allacciarmi le scarpe. Sento la voce di qualcuno che si ferma in piedi davanti a me: “Così sei tu quello che mi somiglia…bene, sei un bravo ragazzo”. Io alzo gli occhi, vedo Pasolini e rispondo: “Sì maestro, dicono che ci somigliamo”. Lui se ne andò a giocare la sua partita e io da allora non l’ho più rivisto».
La sua partita come finì?
«Non ricordo. Ma di solito noi cantanti perdevamo perché i discografici erano più forti. Però quella volta feci un gol».
Era bravo?
«Ero bravino. Da ragazzino volevo fare il centravanti, il mio idolo era Altafini. In realtà giocavo ala destra, perché non ero esattamente un goleador e non volevo la responsabilità di dover segnare. Avevo scelto la maglia numero 7 perché era quella di Kurt Hamrin, detto anche “Uccellino”: sembrava volare leggero per il campo. Una volta ho giocato con Raimondo Vianello: una partita indimenticabile per me».
Come mai?
«Era nella squadra avversaria. Lui era un vero fanatico di calcio e quella sera a causa di una sua reazione a un fallo l’arbitro lo espulse. Lo ricordo ancora, così magro e così alto, che protestava con l’arbitro con la stessa voce e con la stessa espressione con cui protestava in tv con Sandra. Era uno spettacolo».
Poi ha smesso di giocare a calcio.
«Quando ho cominciato a fare teatro, nel 1975, ho smesso per senso di responsabilità: non potevo rischiare di farmi male e di non andare in scena penalizzando i colleghi della compagnia».
Cosa pensa quando si rivede bambino nelle foto in bianco e nero?
«Io non sono mai stato bambino».
Cosa intende?
«Quando a sette anni i tuoi genitori ti buttano in strada a guadagnarti la vita…non sei più un bambino».
Cosa faceva?
«Il ragazzo di bottega di una cantina, portavo il vino ai tavoli. A sette anni. E ho detto tutto».
Poi le cose sono cambiate.
«Sì, e la vita è stata generosa con me. Ho avuto il privilegio di vivere un periodo meraviglioso. Visconti, Zeffirelli, Patroni Griffi, Garinei e Giovannini, Magnani, Strehler, Joséphine Baker. Per non parlare degli attori straordinari, da Gassman a Sordi fino a Manfredi, per dirne solo alcuni. Personaggi immensi. In occasione del David di Donatello che vinsi per “Metello” nel 1970, Franco Zeffirelli organizzò una visione privata del film a casa sua, sulla via Appia, per far conoscere quel “giovane talento” che ero io. Ricordo la casa piena di personaggi famosi: la festa era per me, ma io guardavo ammirato tutti gli altri».
La sua prima apparizione tv fu in «Scala reale», l’edizione del 1966 di «Canzonissima».
«Avevo 15 anni. Arrivai a Roma senza i calzini perché non ce li avevo, un vestito nero di gabardine racimolato chissà da chi che mi andava stretto e aveva le maniche troppo corte: così conciato, secco secco com’ero, sembravo uno stecchino».
Era la prima volta che andava via da Napoli?
«No, nel 1964 già ero stato in America a cantare con il nome d’arte “Gianni Rock”. Ero un uomo di mondo… (ride)».
Aveva solo 13 anni…
«E a 15 arrivò la grande occasione con “Scala reale”. Ma ero minorenne e al Teatro delle Vittorie non potevano farmi entrare. Allora la mia casa discografica falsificò la carta di identità, scrivendo 18 anni».
A 18 anni, quelli veri, ha vinto il «Cantagiro» con «Rose rosse». A 19, trionfò a «Canzonissima» con «Vent’anni».
«Ricordo ogni istante di quella serata. Ero seduto vicino a Claudio Villa e Gianni Morandi, poi c’erano Mino Reitano, Rosanna Fratello, Iva Zanicchi…“Canzonissima” era la trasmissione più importante d’Italia, c’erano 20 milioni di persone a seguirla. Quando Corrado mi annunciò come vincitore e Raffaella Carrà venne a prendermi in platea, appena salito sul palco ero stordito dalla gioia, dall’incredulità».
Tra tutti i suoi colleghi, Claudio Villa fu quello che applaudì con più calore…
«Claudio Villa mi voleva bene. Lui era il “reuccio” e ripeteva spesso che l’unico suo erede ero io. Una volta a un “Cantagiro” avevo appena finito di cantare, lui uscì dai camerini dietro al palco, prese il microfono e disse: “È lui il più forte, è lui che deve vincere, lo scugnizzo”. Mi chiamava così».
Eravate amici?
«Lo eravamo in queste occasioni ma poi ognuno aveva la sua vita. Come succede sempre in questo mestiere».
Ha delle amicizie tra i colleghi?
«Gianni Togni. Abbiamo lavorato insieme vent’anni fa e siamo rimasti amici».
E la rivalità con Gianni Morandi?
«L’avete inventata voi giornalisti. Come quella tra Rivera e Mazzola o tra Villa e Modugno. Gianni vive a Bologna, io a Roma: non ci frequentiamo. C’è stima, ma non siamo mai diventati amici. Però ci siamo divertiti ai tempi di “Canzonissima”. Il Teatro delle Vittorie era la nostra casa, eravamo lì da ottobre fino a gennaio e per tre giorni a settimana si stava insieme: prove, controprove e poi la serata in diretta. Facevamo ipotesi su chi avrebbe vinto, scherzavamo. E con Gianni giocavamo a scopa nei camerini».
Quale canzone preferisce nel suo repertorio?
«“Vent’anni” è quella che tuttora mi emoziona di più. “…Nasce così la vita mia… come comincia una poesia” (e la canticchia, ndr). All’epoca, a 19 anni, la cantavo ma non la capivo fino in fondo, ero troppo giovane. Invece ha una poesia, una leggerezza, una tenerezza uniche e racchiude quello che una mamma si augura per un figlio. Era un momento storico bello, l’Italia ancora cresceva giorno dopo giorno, c’era un entusiasmo incredibile».
E quella che ha cantato più volte?
«“Rose rosse”. Senza dubbio. Se a un mio concerto non canto “Rose rosse” parte la protesta!».
Lei sa camminare sul filo, restare in equilibrio sulla palla, sa fare il giocoliere, balla il tip tap, recita, canta, tira di scherma, sa boxare…c’è qualcosa che nella vita non è riuscito a imparare?
«Sono rimasto ragazzino dentro e sono sempre curioso di scoprire cose nuove. C’è una cosa che ancora non sono riuscito a fare neanche ai tempi della commedia musicale “Barnum” e dei miei esercizi circensi: andare sul monociclo. Ma ci riuscirò».
Come si tiene in forma?
«Tutti i giorni corro un’ora e cerco di mangiare sano».
E una coccola?
«Un quadratino di cioccolata amara. Anzi, un quadratone...».
Ci racconta i suoi nuovi progetti professionali?
«Sono in tournée con due spettacoli: “Malìa” e “Sogno e son desto… in viaggio”. Ho finito di girare il film di Roberta Torre “Riccardo va all’inferno”, un musical dark in cui interpreto un malvagio Riccardo III con i capelli rasati, gobbo, zoppo e…cattivissimo. Stentavo a riconoscermi allo specchio!».
Con una vita così piena, quali sono «i sogni ancora in volo» (per citare «Perdere l’amore») di Massimo Ranieri?
«Come tutti i single, il desiderio ora è trovare una compagna che mi “raccatti” (ride). Insomma, sogno l’amore».
Ma lei da bambino voleva fare il cantante?
«No, il boxeur. Ma mio padre mi ripeteva: “Guaglio’, i cazzotti fanno male...”».

Massimo Ranieri - VENT’ANNI

di G. Bigazzi - T. Savio - E. Polito
Ed. Sugarmusic - Milano

La mia vita cominciò
come l’erba, come il fiore
e mia madre mi baciò
come fossi il primo amore.
Nasce così la vita mia
come comincia una poesia.
Io credo che lassù
c’era un sorriso anche per me,
la stessa luce che
si accende quando nasce un re.
Una stella, una chitarra,
primo amore biondo e mio,
ho l’orgoglio dei vent’anni
che ansimavi, dissi addio
e me ne andai verso il destino
con l’entusiasmo di un bambino.
Io credo che lassù
c’era un sorriso anche per me,
la stessa luce che
si accende quando nasce un re.
Ma sono qui se tu mi vuoi
amore dei vent’anni miei.
Io credo che lassù
qualcuno aveva scritto già
l’amore mio per te
è tutto quello che sarà.
Io credo che lassù...

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