Il giornalista e conduttore festeggia con Sorrisi i 50 anni dall’esordio. E anticipa: «Vi racconterò la musica partenopea in dieci documentari»
Ci sono protagonisti della storia della tv che, quando non ci sono, mancano. Uno è Antonio Lubrano, che negli Anni 90 è stato il primo «difensore civico» dei telespettatori con «Mi manda Lubrano», nato per tutelare i cittadini da truffe e raggiri. Proprio nel 2018 Lubrano celebra i 50 anni dal debutto televisivo in «Un volto una storia» del 1968. A quel programma in Rai il giornalista e scrittore, napoletano di Procida, approdava dopo aver diretto il nostro giornale. Ed è da qui che inizia la nostra chiacchierata.
Iniziamo da qui: da ex direttore di Sorrisi il giornale le piace ancora?
«Sì! Io e mia cognata Licia, che vive in Svizzera e lo compra sempre anche lei, lo commentiamo insieme. Ho lasciato Sorrisi soltanto perché la tv mi incuriosiva con il suo linguaggio nuovo».
Lei usò subito un linguaggio molto diretto.
«Al Tg2, i miei colleghi si stupivano. Se durante un’intervista non capivo qualcosa, obiettavo: “Non ho capito” e lo lasciavo nel montaggio del servizio. All’epoca sembrava spregiudicato chiedere ai ministri di fare chiarezza».
Altri tempi.
«Gli Anni 80: la classe politica di allora, a confronto con quella di ora, era fatta da giganti. De Mita, Spadolini, Andreotti. Altri tempi, sì».
Nel 1987 ebbe una rubrica tutta sua: «Diogene».
«Nella prima puntata mi presentai in video con pullover e giacca di lana. Funzionò: sembravo uno di famiglia per la gente a casa. E il Tg2 passò da 3 a 4 milioni di spettatori».
Come mai allora lei se ne andò a Raitre?
«Mi volle Angelo Guglielmi, allora alla guida della rete. Decise lui di mettere Lubrano nel titolo del programma, come eco del famoso film “Mi manda Picone”. A me sembrava presuntuoso: c’erano solo “Telemike” e il “Maurizio Costanzo Show” col nome del conduttore nel titolo. Ma accettai e mi fecero il contratto artistico. Cifre basse, però, non come quelle che girano oggi. E a proposito di quei tempi, ricordo che Fabio Fazio nella prima stagione era il mio inviato nelle famiglie truffate. Era bravo, aveva il garbo che mantiene».
Lo considera un erede?
«Parlare di eredi è da superbi. Guardo volentieri Enrico Mentana e Giovanni Floris, che spiegano bene le cose».
E se si vuole rilassare?
«Ascolto musica. La domenica vado all’Auditorium qui a Milano per i concerti».
Le piace la lirica?
«Moltissimo, ho condotto con grande piacere “All’Opera!” per tanti anni».
Qual è l’opera che le «somiglia» di più?
«Per il testo, “Il Rigoletto”: “Cortigiani, vil razza dannata” avrei potuto dirlo io ai truffatori che ho combattuto. Ma le melodie di Giacomo Puccini mi toccano il cuore».
Non la si vede in onda da un po’, le manca la tv?
«Torno presto! Ho preparato dieci puntate di “Cara Napoli, ti scrivo”, il programma sulla canzone napoletana che ho ideato con Edoardo Romano, l’attore dei Trettré, mio caro amico. Ci unisce la nostalgia per la nostra città: io meneghino e lui brianzolo d’adozione, ma napoletani veraci».
Un’accoppiata inedita.
«Ci dividiamo i ruoli: io parlerò delle canzoni. Da “Marechiare” a “Napul’è”, da “Te voglio bene assaje” a “Ajere”, le canzoni serviranno a illustrare i temi di ogni puntata: il mare, la notte, l’emigrazione, gli innamorati traditi, i “cornuti”, il caffè... Edoardo farà da ironico cicerone alla scoperta dei monumenti. Il programma andrà in onda a settembre su Canale 21, l’emittente più seguita in Campania».
E nel frattempo cosa fa?
«Ho appena pubblicato il mio sesto libro, “L’Italia truccata”, in cui racconto truffe vecchie e nuove di questo nostro Paese malconcio. L’ho dedicato a mia nipote Gaia. Ha 17 anni, è già una cittadina consapevole, è il mio orgoglio».
Ma lei, all’ufficio postale o in banca, litiga?
«Sempre. I burocrati di professione mi riconoscono già dal timbro di voce quando sono in fila, magari con occhiali e cappello. E a quel punto si danno da fare».
Va anche alle riunioni di condominio?
«No, “mando” mia moglie Mariella, perché la casa è intestata a lei. Ci siamo conosciuti quando “Mi manda Lubrano” andava in onda dalla sede Rai di Milano: curava lei l’ottimizzazione del programma».
Fece lei il primo passo?
«Io nasco timido... Da bambino arrossivo, ma da una guancia sola. Mia madre Clotilde, nata a Porto Said, in Egitto, pareggiava i conti dandomi uno schiaffo sull’altra guancia quando combinavo monellerie» (ride).
Porto Said?
«Suo padre era capitano di mare. Sul Canale di Suez i procidani erano richiestissimi. Discendo da una famiglia di navigatori da sette generazioni. Anche mio padre Giuseppe e mio nonno lo erano. Ci chiamiamo non a caso Lubrano di Scampamorte: i miei avi sono sopravvissuti a più di un naufragio».
Con un cognome così, lei è superstizioso?
«Al contrario, ci rido su. Una volta Vittorio Sgarbi mi incontrò a un premio letterario e fu sorpreso: «Ma tu non eri morto?». Gli risposi che sono immortale, in ossequio al mio cognome».