Tre diverse interviste per i tre diversi ruoli di uno dei giornalisti sportivi più apprezzati che in questi giorni ci sta raccontando i Mondiali di Russia 2018

«Vivo di calcio, ma ho un mondo segreto». Pierluigi Pardo si racconta: «Che incubo quella partita in cui ho perso gli appunti. Ho successo perché evito eccessi e polemiche»
Il telecronista: «Imparo 100 cose per dirne 10»
Dal 30 giugno le partite della fase finale dei Mondiali di Russia 2018 saranno trasmesse solo da Canale 5 e non più da Italia 1. E naturalmente dietro al microfono continuerà a esserci anche Pierluigi Pardo.
Questo è il suo terzo Mondiale raccontato dagli spalti, il primo a Mediaset.
«I primi due furono quelli del 2006 e del 2010: allora lavoravo per Sky. Lì ho tanti amici e rispetto il loro lavoro, ma la tv generalista ha altri numeri. Quando fai la telecronaca per 7 milioni di telespettatori, come successo in Germania-Messico, la dimensione del racconto cambia».
Come si è organizzato in questi giorni?
«Le prime due partite le ho commentate allo stadio in Russia. Poi dovendo condurre “Tiki Taka” sono rientrato in Italia e ho fatto un po’ di telecronache in studio. Ora, visto che tutte le gare vanno in onda su Canale 5 ed è tornato “Balalaika” (mentre “Tiki Taka” ha chiuso i battenti), mi sono rispostato in Russia».
Come studia una partita?
«Ho una formula matematica: imparo 100 cose sapendo che riuscirò a dirne solo 10. Ho un archivio che aggiorno di continuo. Prima o poi quello che studio mi sarà utile».
Le dico una data, 8 marzo 2017: che cosa le viene in mente?
«La gara di ritorno dei quarti di Champions League tra Barcellona e Paris Saint-Germain, con gli spagnoli che vincono 6 a 1 all’ultimo minuto e ribaltano il 4 a 0 dell’andata. La mia telecronaca più bella».
La volta in cui si è ritrovato senza parole, è stata...?
«Ero appena arrivato a Tele+ (la pay tv che, poi, fu assorbita da Sky, ndr) e dovevo commentare Bari-Sampdoria. Ci fu una grandinata e il vento fece volare via il foglio con i miei appunti. Fu un vero incubo».
Che voto si dà come telecronista?
«Sette e mezzo».
Il conduttore: «Ho resuscitato il talk sportivo»
Il suo modo di raccontare il mondo del pallone è scanzonato e popolare. Più che da salotto tv è quel calcio da bar dello sport che parla alla pancia dei tifosi. E non a caso Pardo, anche con «Tiki Taka Russia» (la versione «mondiale» del suo programma che si è conclusa il 28 giugno), ha fatto un boom negli ascolti con due milioni e mezzo di telespettatori a puntata.
Pierluigi ma qual è il segreto di questo successo?
«Abbiamo riproposto la stessa formula vincente della versione classica che segue la Serie A durante l’anno. Al centro c’è il calcio, ma declinato nella maniera in cui ne parla la gente comune. Ci mettiamo dentro la cronaca, la polemica, la moviola, le storie del passato. Quello che il pubblico ama e vuole sentire. E sempre con ospiti diversi che arrivano da tutti i mondi possibili, da Enrico Mentana a Cristiana Capotondi e Pupo, per citarne alcuni».
Si sente erede di un altro grande giornalista sportivo «pop» come Aldo Biscardi?
«Sì e no. Di Biscardi prendo il suo essere stato un innovatore, però lui era uno che amava molto le discussioni accese. A me, invece, gli eccessi polemici non piacciono. Se devo scegliere dei modelli, penso a Beppe Viola e Raimondo Vianello per la loro ironia e a Giampiero Galeazzi per la fisicità e quella romanità che mi porta a essere assai poco formale».
Qual è il suo argomento calcistico preferito?
«Il calcio della memoria, quelle vecchie storie di pallone che emozionano sempre. Viceversa non amo l’attualità, per esempio detesto il calciomercato».
La volta in cui si è ritrovato senza parole, è stata...?
«Quando l’anno scorso nella prima puntata di “Tiki Taka news”, Flavio Briatore ha iniziato a insultarci: lì ammetto di essermi trovato un po’ spiazzato, anche perché non ho mai capito perché ce l’avesse con noi».
Che voto si dà come conduttore?
«Sette, ma solamente perché abbiamo ridato vita a un genere, quello del talk show sportivo, che ormai era dato per spacciato».
Lo scrittore: «Devo ringraziare Nick Hornby»
Infine c’è anche un terzo Pardo, più intimo. Ossia lo scrittore: il suo ultimo libro si intitola «Lo stretto necessario» (Rizzoli, 19 euro) ed è uscito a novembre. A differenze di quelli precedenti a esclusivo tema calcio, è un romanzo in cui il pallone fa solo da sottofondo a una storia di viaggio, amicizia e amore ambientata nei giorni del Mondiale del 2006, quello vinto dall’Italia.
Come è nata la voglia di scrivere?
«Avevo raccolto un po’ di storie e le avevo mandate alla Rizzoli, il mio editore. Non avevo mai pensato a un romanzo, sono stati loro a insistere. Anche se la spinta è arrivata da un incidente...».
Cioè?
«Ero al ristorante con Tommaso Paradiso, il cantante dei Thegiornalisti, e quando siamo usciti abbiamo trovato il vetro della macchina sfondato: mi avevano rubato il computer in cui c’erano le prime 100 pagine del libro».
E allora cosa ha fatto?
«Mi sono detto: “Se riesco a recuperarlo, lo finisco”. Per fortuna alla Rizzoli ne avevano ancora una copia».
Com’è il Pardo scrittore?
«Uno che è costretto a spegnere il telefonino per scrivere! In realtà in questo libro ho messo dentro tanto di me: il romanticismo, che in tv non si vede, ma anche cinismo, la passione per il calcio, per il sud del mondo, per il cibo e per la musica».
Qual è il libro che le ha fatto venire voglia di scrivere?
«Senza dubbio “Alta fedeltà” di Nick Hornby».
La volta in cui si è ritrovato senza parole è stata...?
«Per i primi tre anni in cui ho elaborato la storia. Iniziare è la cosa più difficile».
Che voto si dà come scrittore?
«Otto, perché questa è la cosa più sorprendente che abbia fatto nella mia vita».