Paolo Bonolis presenta «Music», il nuovo show con Luca Laurenti

«Sono un fan del rock e i brani dei Queen li so tutti a memoria» dice il conduttore, che ricorda quella volta in cui Freddie Mercury lo invitò a un concerto...

Paolo Bonolis nello studio di «Music» assieme ad Anastacia
10 Gennaio 2017 alle 14:49

Il Teatro 5 di Cinecittà, quello leggendario di Federico Fellini, è inondato dalle potenti note suonate da un’orchestra di ben 64 elementi. Sul lunghissimo palco, con gli occhi chiusi e totalmente rapito dalla canzone, Paolo Bonolis canta a squarciagola «My way». Tutt’intorno, un fuggi fuggi generale: gli autori gli stanno facendo uno scherzo lasciandolo da solo. La telecamera riprende tutto. «Sono rimasto solo come un fuso, questo momento meschino finirà di sicuro tra i contenuti inediti della terza puntata» dice ridendo Paolo. Siamo nel pieno delle prove di «Music», il nuovo show condotto da Bonolis su Canale 5. Due puntate in onda dall’11 gennaio più, appunto, una con il «meglio di» e il dietro le quinte.

Paolo, come nasce questo programma?
«Da una domanda: “I grandi artisti che hanno cantato le canzoni della nostra vita, ce l’hanno a loro volta una canzone della vita?”».
Hanno risposto in tanti?
«Sono moltissimi i personaggi che verranno a raccontarsi attraverso la musica. Ognuno viene a celebrare non se stesso ma chi gli ha permesso di diventare l’artista che è oggi. E lo fa con l’interpretazione di un brano che ha segnato la sua vita. Ci saranno John Travolta, Simon Le Bon, Tony Hadley, Anastacia, Nek, Francesco Renga, i The Kolors, Gianna Nannini, Loredana Berté, Morgan, Antonello Venditti… E tanti altri non hanno potuto partecipare perché non c’era lo spazio. Per questo mi auguro che lo show vada bene. Se si decidesse di fare una seconda edizione, infatti, si presenterebbero molti altri personaggi: hanno capito quanto sia divertente condividere le canzoni della vita».
Come ha immaginato lo show?
«È una trasmissione senza gara. Non vince nessuno, non ci sono premi, non c’è una giuria, non c’è una partecipazione a Sanremo, non c’è un contratto con una casa discografica… C’è semplicemente il piacere della musica, che pensiamo sia ancor più bella quando la puoi raccontare».
Ci sarà anche Luca Laurenti con lei?
«Non poteva mancare: ha una bella voce, ama le canzoni. Con lui viviamo momenti di musica, ma allo stesso tempo di divertimento. Manteniamo la logica della “leggerezza pensosa” di Italo Calvino, facciamo una cosa che ci piace ma al contempo non ci prendiamo troppo sul serio. E vorrei pensare che i nostri racconti possano essere anche parzialmente didattici».
Cosa intende?
«Magari un brano che amiamo ha dietro una storia che ce lo fa apprezzare ancora di più. Così che all’emotività del ricordo e della nostalgia si leghi una conoscenza che lo renda ancora più saporito».
C’è la nostalgia tra gli ingredienti dello show?
«Nostalgia è una parola ingannevole, ti dà immediatamente un’idea di polvere, di passato. In realtà la musica non ha passato. Se la canzone che ascolti ti colpisce vuol dire che fa parte non del tuo passato ma è ancora vivida nel tuo presente. È difficile collocare temporalmente la musica».
La musica che posto ha nella sua vita?
«Un posto importante, perché alla fine anche la chiacchierata che stiamo facendo è musica, nel senso che la parola è musica. Anche il parlato è una forma di armonia del pensiero. La musica è sostegno, ricordo, accompagnamento della vita. È sentimento: dalla gioia al dolore, dalla bellezza alla tristezza. È colonna sonora di qualunque passaggio della nostra vita. Anche un clacson che suona perché ti sei addormentato al semaforo, pure quello è musica».
La ascolta spesso?
«Non sono un “pervertito” della musica come i miei autori Marco Salvati e Sergio Rubino, che vivono in musica e conoscono persino i nomi dei componenti delle band di nicchia: gente che per me ha il sapore della ricerca dei graffiti del Neolitico. Io questa preparazione non ce l’ho. Però ho un piacere da utente che mi porta a godere serenamente della musica».
In auto accenderà sempre la radio, immagino.
«Ascolto in radio quelle trasmissioni che accompagnano la musica con la parola. E poi ho una mia playlist».
Come la ascolta?
«Con le orecchie!».
Intendevo... con quali supporti?
«L’autoradio. La mia macchina, oltre al volante e alle ruote, ha anche la possibilità di ascoltare la radio. Ho avuto fortuna a trovarla così accessoriata!».
E va anche in giro con gli auricolari nelle orecchie?
«No. Io amo anche il silenzio e mi piace ascoltare la parola altrui. La musica è anche esposizione gradevole del pensiero».
A casa canta?
«No, sennò vanno via tutti».
Neanche sotto la doccia?
«No. Lo shampoo mi finisce in bocca».
Suona qualche strumento?
«Il citofono. Però sbaglio spesso l’inquilino. In realtà non so suonare niente. Io sono una vera e propria schiappa. Cantare, ballare, recitare, suonare: non so fare niente. E ti pare poco? È difficile nascere senza alcuna eccellenza!».
Ognuno ha le sue eccellenze.
«La vera fortuna nella vita è riuscire a riconoscerle».
Lei le ha riconosciute?
«Sì. Ho avuto la possibilità di capire che nel mio percorso di vita la parola e il pensiero potevano avere una loro importanza».
Il brano della sua vita?
«Ce ne sono diversi. La canzone che canto in una forma di frenesia quasi isterica è “Stand by me” di Ben E. King. Ma in generale direi la musica degli Anni 60 e sceglierei un brano dei Moody Blues: “Nights in white satin”, un pezzo che mi piace particolarmente».
La canzone che le mette allegria?
«Sono tante, alcune per il ritmo, altre per il testo: da “La mia banda suona il rock” di Ivano Fossati a “Happy” di Pharrell Williams fino alla versione di David Lee Roth di “That’s life”».
Il suo genere preferito?
«Il rock».
Quello che le piace meno?
«Io sono analogico, vecchio e non capisco il rap. È un limite mio, forse tutto quello che ho acquisito nei miei 55 anni mi è sufficiente e non ho più spazio per metterci qualcosa di nuovo».
Il suo telefono cellulare ha una suoneria musicale?
«No. Fa driiiin».
La canzone che se fosse un cantautore avrebbe voluto scrivere?
«“La canzone di Marinella” di Fabrizio De André».
Di chi dice: le so tutte!
«Dei Queen».
Il primo disco che ha comprato?
«Era dei “Black Blood” e si chiamava “A. I. E. (A Mwana)” (e la canta, ndr). Musica africana in versione disco. Poi sono arrivati Cat Stevens e i Pink Floyd».
Il primo concerto che ha visto?
«Non ricordo. Ma uno rimarrà per sempre nella mia memoria, quello a cui andai su invito personale di Freddie Mercury che conobbi in Inghilterra nel 1986 giocando una partita di calcio di beneficenza. Ero un ragazzino, facevo “Bim Bum Bam” e la sera a cena Freddie si sedette accanto a me, evidentemente compiacendosi non so perché del mio aspetto. Io gli spiegai in qualche modo in inglese che “non c’era trippa per gatti”, e lui fu molto simpatico e gradevole. Mi chiese il mio indirizzo in Italia, io gli diedi quello di casa di mia madre a Roma. Dopo qualche giorno arrivarono due biglietti per il concerto di Wembley: fu una cosa meravigliosa».  
La canzone del suo primo amore?
«Non credo avessi una canzone per il mio primo amore».
Quella sua e di sua moglie Sonia?
«“In my defence” cantata da Freddie Mercury senza i Queen».
Ritorna Freddie Mercury…
«Non se ne è mai andato».
I primi titoli della sua playlist?
«“Someone like you” di Adele, “Luce” di Elisa e “Insieme a te non ci sto più” di Caterina Caselli, poi tutti i dischi dei Queen. E i Supertramp, i Dire Straits, Elton John, i Metallica e “Damme ‘o cane”, una canzone di un cantante neomelodico napoletano (Enzo Romano, ndr) che mi fa ridere. È la storia di due che divorziano e lui le dice: “Tienete tutt’e cose ma damme ‘o cane”».
Il prossimo concerto che seguirà?
«I Radiohead a giugno. I biglietti me li regalerà mia moglie per il mio compleanno. Sempre che se lo ricordi e non si presenti con una cravatta».
Altri progetti in tv?
«A gennaio ci sarà un ridimensionamento culturale con “Avanti un altro!”, e poi vediamo come Dio ce la manda».
Il suo buon proposito per il 2017?
«Quello che mi propongo tutti gli anni: cercare di evitare di rompere le scatole agli altri».

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