Pietro Galeotti: «Professione: autore tv. Un bel mestiere, ma…»

Racconta (anche in un libro) i segreti del suo lavoro: dall’incontro con Loretta Goggi alla sigaretta in cortile di David Bowie

Pietro Galeotti
21 Ottobre 2021 alle 09:14

Si chiamano “autori”, non firmano libri o canzoni, bensì programmi tv. Loro sono quelli che la televisione se la sono inventata e continuano a rinnovarla. Certo, ci vuole l’idea giusta, il canale giusto, il produttore giusto, E non è sempre facile. Chi di questo mondo sa tutto è Pietro Galeotti, uno dei più importanti autori tv italiani: tra i tanti titoli che portano la sua firma, “Diritto di replica”, “Quelli che… il calcio”, “Anima mia”, “Che tempo che fa”, “Una storia da cantare”, sette Festival di Sanremo, eccetera. E Pietro ha da poco pubblicato un libro, intitolato “La riunione”: raccolta di aneddoti e riflessioni sulla sua professione.

Ma chi è un autore?
«Non c’è una definizione precisa. Un autore è tante cose: è colui che scrive, progetta, pensa uno show. Ma anche quello che è complice del conduttore. È una figura tecnica, ma anche di supporto psicologico».

Perché lei ha deciso di diventare autore?
«C’è stata una serie di circostanze fortunate per cui a 19 anni, era l’inverno del 1983, sono entrato dalla porta principale in una sala riunioni, per l’appunto. E non sono più uscito. Perché questo è il mestiere più bello del mondo».

Ci sarà qualcosa, però, non proprio gradevole…
«È un lavoro collettivo e questo complica tutto. Come autore cerchi di realizzare il miglior programma possibile. Ma poi devi anche rendere conto agli altri autori, dirigenti, produttori, manager, scenografi, costumisti, coreografi. Hai una responsabilità nei loro confronti. E così finiamo in quelle interminabili riunioni di cui parlo nel libro».

La sua prima riunione come andò?
«Eravamo a Milano, nei vecchi studi della Fiera. Ero giovane e inesperto. Venivo da Savona con Fabio Fazio che era altrettanto emozionato: scrivevamo i testi del suo intervento in “Loretta Goggi in quiz”. C’era Loretta, c’era Luigi Albertelli, un grandissimo autore televisivo, e tanti altri. Mi misi in un angolo e ascoltai».

Come deve essere la riunione “perfetta”?
«Mi piace molto quando sono particolarmente dialettiche. Anche se purtroppo oggi si tende a dividere tutto: uno fa la scaletta, uno i testi del conduttore, uno si occupa del monologo del comico di turno e così via. Un tempo, invece, c’era un confronto continuo, perdendo anche un po’ di tempo parlando di altro. In ufficio, ma anche fuori: si andava in trattoria e si proseguiva. Invece le nuove generazioni preferiscono farsi arrivare il cibo alla scrivania: usanza barbarica (ride)».

Quanta conoscenza della tv serve per scrivere un buon programma?
«Tanta più buona televisione hai visto, quanta più buona televisione potresti progettare. La mia è stata una generazione di spettatori fortunati. Abbiamo visto cose belle, fatte bene. Era l’età dell’oro della tv, quella dei grandi show: uno solo a settimana, ma stupendo».

Rispetto ad allora c’è un’offerta enorme. Il “troppo” annoia e riduce le idee buone?
«Enrico Vaime, che cito nel libro e a cui ho voluto molto bene, mi raccontava che loro preparavano uno show del sabato sera in sei mesi. A noi oggi capita di scriverne uno in 15 giorni. Inevitabilmente c’è meno cura».

E poi ci si deve confrontare con la lunghezza maggiore dei programmi di prima serata.
«Quando guardiamo “Studio uno” e diciamo: “Che meraviglia”, dobbiamo ricordarci che durava poco più di un’ora. Oggi uno show arriva a tre o quattro. Per forza di cose la scrittura ne risente».

Come si sceglie l’ospite “giusto”?
«Ciascun autore porta il suo gusto personale, ma poi si tiene conto delle richieste del committente. Per esempio, un programma sulla nostalgia condotto da Amadeus sarà diverso da uno condotto da Fabio Fazio».

Un ospite che le ha dato soddisfazione invitare?
«Afric Simone. Era un cantante che negli Anni 70 aveva avuto un successo con una sola canzone, “Ramaya”. Poi era sparito nel nulla. Io e Fazio ci eravamo fissati che lo volevamo portare a “Quelli che… il calcio”. Lo trovammo dopo mesi di ricerche in Germania, dove faceva il produttore. Quell’idea nostalgica accese poi la scintilla per inventarci “Anima mia”».

Un autore come vive una diretta?
«Spesso sei il braccio destro del conduttore, perché ne condizioni i ritmi e le scelte. Cito ancora “Quelli che… il calcio”. Era tutto dal vivo. Fabio, che è il numero uno in queste conduzioni, non potendo avere otto occhi aveva bisogno di un supporto esterno. Io dovevo segnalargli quello che stava avvenendo attorno a noi. Altre volte, invece, basta consegnare il copione e tutto procede lungo il suo binario».

Ha firmato sette Festival di Sanremo.
«Sanremo è la zona d’oro dell’autore. Per budget e tempistiche ti consente di lavorare in tranquillità: le prime riunioni si fanno già nei giorni successivi la fine dell’edizione appena conclusa. Anche se poi quello che avviene nell’ultima settimana fa cambiare tutto quello che hai studiato prima (ride)».

Ci sono dei programmi a cui teneva e non sono mai nati?
«Indubbiamente il fallimento del progetto triennale (un talk show, ndr) che io e Fabio avevamo con La7 mi è rimasto dentro. Ma il seme di quella cosa è diventato “Che tempo che fa”...».

Nella sua posizione spesso si ha a che fare con le bizzarrie delle star.
«Un artista deve essere eccentrico al limite del fastidioso: è questo il suo bello. Ricordo l’anno in cui David Bowie venne a “Quelli che… il calcio”: volle andarsi a fumare una sigaretta nel cortile degli studi Rai di Milano in corso Sempione. Lo trovai con la nostra redattrice Cesarina. Stavano lì a chiacchierare. E lei non sapeva nemmeno l’inglese».

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