Pippo Franco: «Con una faccia così chi è che non mi riconosce?»

Il grande attore romano parla della sua carriera e di una popolarità immensa, che ancora oggi lo sorprende

Pippo Franco (vero nome Francesco Pippo) calca le scene da 60 anni. Il suo ultimo film è “Nemici” (2020)
10 Dicembre 2020 alle 13:51

Pippo Franco è una continua sorpresa. Cita Einstein e Benedetto XVI, parla di trascendenza, è stato allievo di grandi pittori come Guttuso e Turcato. La sua carriera lo ha visto attore, cantante, comico, cabarettista, conduttore televisivo, sceneggiatore, commediografo, regista teatrale, umorista. E di recente anche concorrente di un game show come “Soliti ignoti”.

Lei che cosa si sente?
«Ho sempre ritenuto che non siamo nati per percorrere un solo mondo, ma per percorrerli tutti. Io nasco come pittore e come musicista, poi è accaduto il resto. L’attore è stato il quinto mestiere, perché prima ancora avevo disegnato fumetti per tre anni e poi ho fatto il cantautore, scrivendo canzoni spiritose e inconsuete. L’attore è venuto come conseguenza: dovevo presentare queste canzoni e cercare di farle capire. Alla fine la presentazione ha avuto il sopravvento sulle canzoni stesse. Ma faceva tutto parte dello stesso modo di vedere la realtà: evidentemente sono nato per questo».

Nel 1960 il suo primo film: ha debuttato al cinema, in “Appuntamento a Ischia”, accompagnando con il suo gruppo Mina. Che inizio!
«Eravamo bravini. Stavo facendo l’esame di maturità lo stesso giorno in cui avevo il treno per Ischia, dove si girava. Insomma, dovevo decidere se continuare l’esame o vedermi sostituire nel film. Decisi di partire: dissi al professore che andavo a bere un caffè e sparii. Per fortuna recuperai l’esame a ottobre».

È vero che fu Maurizio Costanzo a consigliarle la carriera di cantautore satirico?
«Io suonavo nel locale in cui andò in scena il suo primo spettacolo. Mi prese per fare l’intervallo e la gente rideva a crepapelle».

Cochi e Renato vengono ritenuti i pionieri della canzone demenziale. Dimenticando album come il suo “Cara Kiri”.
«Sì, eravamo proprio sulla stessa strada, tanto è vero che io ho lavorato molto con Cochi e Renato al Derby Club (storico cabaret di Milano, ndr). Noi siamo stati quelli che hanno creato questo modo d’esprimersi a quel tempo assolutamente anomalo. Eravamo i più rivoluzionari, in un certo senso.

Le dispiace non aver ricevuto il giusto credito?
«Vede, il cabaret non va incontro alle esigenze del pubblico, ma risponde a due domande: “Chi sono?” e “Che cosa ho da dire?”. Per me quello che conta è il mio rapporto con me stesso. E poi gli artisti anticipano spesso i tempi».

Lei, comunque, ebbe poi un grande successo in tv con “Dove sta Zazà?” nel 1973.
«Il successo ha andamenti altalenanti. Sono giochi del destino. La mia popolarità non l’ho voluta io, ho fatto semplicemente un tragitto. Ci sono alchimie misteriose: io per esempio ho una faccia che è la mia. Ed è talmente riconoscibile che non mi si confonde mai con nessun altro. Ma mi creda, avrei continuato anche da sconosciuto».

Pochi sanno che nel 1972 fece un film con il grande Billy Wilder, “Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?”.
«Tutti i “grandi” che ho conosciuto e frequentato, compresi Fellini e Antonioni, con i quali ho avuto rapporti personali e non professionali, hanno cercato di tirare fuori da me quello che nemmeno io sapevo di avere. Wilder mi fece leggere il personaggio che dovevo interpretare e mi chiese come avrei voluto farlo. “Scusa, ma Billy Wilder sei te, mica so’ io” gli dissi. Lui insistette e io mi inventai un funzionario pubblico molto rigido. Addirittura arrivai a suggerirgli delle inquadrature e mentre lo facevo mi resi conto che stavo parlando con Billy Wilder, quello di “A qualcuno piace caldo”, il regista che ha contribuito alla nascita del mito di Marilyn Monroe. E chiesi scusa. E lui: “Vai avanti!”. In pratica fece il personaggio esattamente come lo avevo descritto io».

Oltre 40 anni con “Il Bagaglino”. Che cosa ha rappresentato?
«La “summa” di tutto quello che avevo fatto. Castellacci e Pingitore hanno portato il cabaret in tv e abbiamo fatto programmi per 23 anni. Tutti gli altri, venuti dopo, sono esplosi anche grazie a questa porta aperta da noi».

Lionello, Gullotta, lei. Difficile la convivenza?
«I comici hanno una particolarità: non accettano che ci sia un altro comico nel raggio di 30 chilometri. Io feci capire loro che è meglio raccogliere 50 risate collettive che 10 con un comico solo. Niente rivalità, insomma».

Spesso i comici sono persone tristi.
«Io li definirei, naturalmente non in senso scientifico, “bipolari”. Lo dico perché il comico conosce la fame e conosce la morte, e vive questa sorta di “doppio” come una forma di creatività. Non puoi parlare di ironia se non conosci il dramma e se non lo hai praticato».

Ci regala una battuta?
«Cito un grande autore, Ennio Flaiano, ed è una frase che sintetizza come vivo oggi: “La stupidità degli altri mi affascina, ma preferisco la mia”».

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