Il conduttore è tornato al timone de "L’eredità" e regala solo a Sorrisi un’intervista sincera e molto speciale
Arriviamo tutti e due in anticipo di mezz’ora all’appuntamento agli Studi “Fabrizio Frizzi”. «Miracolosamente non ho trovato traffico» dico. «Temevo di non svegliarmi in tempo» ride Flavio Insinna. E mi mostra un foglietto con su scritto a caratteri cubitali: “Ore 11 intervista con Sorrisi”. Ed è l’unica che Flavio concede da tanto tempo. Sulla sua insonnia ormai ci scherziamo su.
E quindi stanotte quante ore hai dormito?
«Poche, perché avevo paura di arrivare tardi e alla fine il pensiero di non sentire la sveglia... mi sveglia sempre prima che suoni (ride). Ma ultimamente va meglio. In genere dall’una alle 6 di mattina riesco a riposare. Poche ore, ma almeno non travagliate. Però le sveglie le metto sempre…».
Quante “inutili” sveglie metti?
«Ho due telefoni, in ognuno ne metto due a distanza di mezz’ora l’una dall’altra».
Sono quattro?
«Sì. E ho trovato anche la giusta distanza a cui piazzare il telefonino: troppo vicino non va bene perché sennò spegni e ti riaddormenti, ma quando ero un dilettante lo mettevo troppo lontano e non sentivo il suono. Ora dopo anni di tentativi ho trovato la via di mezzo (ride)».
Dal 25 settembre è partita la nuova stagione di “L’eredità”. Che novità ci sono?
«Un gioco inedito che ruota attorno alle parole. E poi abbiamo quattro nuove “professoresse” (vedi pag. 13, ndr). Che ora sono impegnatissime a provare. Alla mia età mi fa sempre più tenerezza vedere delle ragazze così giovani e la loro emozione quando entrano in uno studio televisivo. Per quel poco che posso fare, cerco di aiutarle anche scherzando e creando un clima sereno».
Ricordi la tua di emozione quando hai cominciato?
«Certo! Il mio primo film era con Diego Abatantuono, “Figli di Annibale”. La notte precedente il primo giorno di lavoro mi venne la febbre a 40 per l’agitazione. Giravo nella stanza con la coperta addosso sperando di sudare e di farla scendere, ma niente. Arrivai sul set trascinandomi e Diego Abatantuono da lontano mi chiamò: “Ma che fai lì da solo? Vieni!”. Cominciammo a chiacchierare e la febbre magicamente scese. Diego ebbe un effetto terapeutico (ride). Il segreto è nel come si viene accolti. Lo stesso è accaduto sul set di “Don Matteo”».
Come andò?
«Quello è stato un altro inizio per me. Era il 1998, io avevo fatto tanto teatro, qualche serie televisiva, ma lì mi sono ritrovato sul set con Terence Hill e Nino Frassica: come giocare con Pelè e Maradona. Già nelle prime pause Nino ha cominciato a scherzare e a dirmi: “Se hai un dubbio parliamone e se c’è qualcosa da sistemare dammi una mano, che qui è complesso: la commedia, il giallo, l’indizio, il dettaglio…”. Io mi sono sentito subito coinvolto e 100 chili più leggero. Una delle immagini più poetiche che conservo delle mie cinque stagioni di “Don Matteo” è quella di Nino che la mattina alle 6 arriva al trucco con tanti pezzettini di carta tutti scritti con gli appunti e li condivide con me».
Ci sarai in “Don Matteo 12”?
«Mi piacerebbe molto. Sicuramente andrei se ci fosse l’occasione. Anche di passaggio: Anceschi che ha sbagliato strada, o ha finito la benzina…proprio per il gusto di essere di nuovo con tutti loro. Quelle mie cinque stagioni sono un pezzo di vita, non solo di carriera».
In fondo anche “L’eredità” è stato un nuovo inizio per te lo scorso anno.
«È vero. E Carlo Conti mi ha accolto così: “Flavio, mettiti nel camerino numero 8, è quello accanto al mio. Qualunque dubbio, mi bussi e ne parliamo”. E così è stato».
E hai bussato?
«Eccome. Anzi. Tante volte ha bussato lui per dirmi: “In quella situazione prova a fare una pausa più lunga, durante la Ghigliottina guardalo e non parlare...”. Poi vado in studio, faccio come dice lui e vedo che funziona. Lui si scoccia quando lo dico, ma lo ribadisco lo stesso: Carlo è un maestro. È la bellezza di questo mestiere: continuare a studiare, a capire nuove cose, non sentirsi mai appagato».
A proposito di “ghigliottina”, le azzecchi?
«No. Oddio, al ventesimo indizio la indovino pure io...».
Quando ti hanno proposto di prendere in mano “L’eredità” qual è stato il tuo primo pensiero?
«Scappare. Io ero paralizzato da mille pensieri, mi è passato il mondo nella testa. Per primo, un senso di inadeguatezza. Poi il mio pensiero è corso “là”: puoi mai pensare che quel gioco si chiama “L’eredità” e tu lo prendi da un amico fantastico che non lo lascia per andare a fare Sanremo ma perché non c’è più? Ho parlato tanto con Carlo, con gli autori, con la produzione, con i direttori... Tutti mi hanno tranquillizzato, era un “sì” collettivo e condiviso, ma era una situazione complicatissima, anche perché io a Fabrizio ci penso ogni giorno…».
E alla fine cosa ti ha fatto dire “sì”?
«Il sorriso di Carlotta (Mantovan, la moglie di Fabrizio Frizzi, ndr). Per me ha fatto la differenza. Poi sai che non sarai perfetto, ma offrirai tutto te stesso a quel viaggio che stai per fare».
Nella vita professionale ci sono per tutti momenti di soddisfazione e momenti di difficoltà. Come si superano questi ultimi?
«Una volta chiesero a Gianni Morandi: “Come ha fatto a fare bene il Festival di Sanremo?”. Lui rispose: “Devi ridere tanto, pure quando non c’è da ridere. Perché se ridi, la risata si espande e anche se c’è un problema, o se ce ne sono due o tre, si risolveranno. E se non si risolveranno non è la fine del mondo”. Se non sei felice, non puoi spandere felicità intorno a te».
Tanto tempo fa in un’intervista mi hai detto: «Nessuno di noi fa interventi a cuore aperto»...
«Questo cerco di non dimenticarlo mai. Bisognerebbe sempre ricordare come giocavamo agli inizi e continuare a divertirci con il nostro lavoro, che è meraviglioso».
Flavio oggi sei un uomo felice?
«Sì. E sono anche fortunato. Con la “F” maiuscola. Ho una famiglia, ho potuto studiare, ho avuto delle occasioni, l’amore delle persone. Una sera in teatro una signora anziana si alza e durante lo spettacolo mi si avvicina con un pacchetto. Io lo prendo, lo apro e c’era un panino: “Ti vedo tanto stanco” mi dice. Non è bellissimo?».
Qual è stato un momento bello della tua vita?
«Era il 2006, ero rimasto a casa a vedere la finale dei Mondiali di calcio con i miei genitori. Papà era già malato. Finisce la partita e nel momento dell’euforia della vittoria mi giro e vedo mia madre sul terrazzo con la tromba in mano che suona e mio padre che finge imbarazzo e dice: “Rossana, rientra, non ti far vedere così!”. Ma rideva anche lui... E io guardandoli così, lui che già non stava bene e lei con la voglia di farlo ridere dopo tanti anni insieme e con i problemi che stavano arrivando, lo ricordo come un momento di felicità assoluta».
Torniamo al lavoro. A metà ottobre ti vedremo anche al cinema.
«Già, dopo tanto tempo sono tornato a recitare in un film. Si chiama “Se mi vuoi bene” (esce nei cinema il 17 ottobre, ndr) ed è tratto dall’omonimo romanzo di Fausto Brizzi, che è anche il regista. Io interpreto un attore “cane” disoccupato. “Grazie per la fiducia, Fausto” gli ho detto. “Cercherò di essere più cane possibile, un cane Doc”. Ci ha fatto molto ridere tutto questo. È una commedia corale e il cast è pazzesco: Sergio Rubini, Claudio Bisio, Lucia Ocone, Gian Marco Tognazzi, Maria Amelia Monti, Elena Santarelli...».
Sembri davvero sereno in questo periodo.
«C’è una parola che Carlo Conti mi ha detto prima di cominciare “L’eredità”: “Goditela!”. Vuol dire goditi tutto quello che di bello ti capita, mentre succede. Dal primo sorriso del vigilante che ti apre il cancello, al ragazzo del bar che ti prepara il caffè e ti saluta, alle riunioni con gli autori, gli incontri con la redazione, a questa chiacchierata con te dopo tanto tempo. Tutto questo mi rende felice. E ora ci faccio caso».