Franca Leosini: «Per ogni caso potrei scrivere un romanzo»

Torna in tv con Storie maledette e racconta a Sorrisi come prepara le sue mitiche interviste

27 Giugno 2019 alle 12:03

Ci vorrebbe un ideale rullo di tamburi, tanta è l’attesa, per annunciare il ritorno di Franca Leosini in tv con due nuove puntate di “Storie maledette”. I “Leosiners”, gli affezionatissimi fan della giornalista, sono in fibrillazione. Il 30 giugno e il 2 luglio su Raitre Franca Leosini accende i riflettori sulla vicenda di Marco Vannini, il ventenne che nel maggio del 2015 morì a casa della fidanzata a Ladispoli (Roma) per colpa di un proiettile. Antonio Ciontoli, sottufficiale di Marina distaccato ai Servizi segreti, il padre di Martina, la fidanzata, condannato a 14 anni di reclusione dalla Corte d’Assise di Roma, con pena ridotta in Appello a 5 anni per omicidio colposo, è in attesa che si pronunci la Cassazione. Dopo quattro anni di silenzio ha deciso di parlare in esclusiva con Franca Leosini per raccontare cosa accadde quella notte.

Franca, tutti i giornali e le tv avrebbero voluto intervistare Ciontoli. Solo lei c’è riuscita…
«Faccio poche cose durante l’anno, ma quelle devono essere esclusive, devono avere un segno e devono lasciarlo. Il titolo è “Quel colpo che arriva al cuore” e ha una doppia valenza: il colpo sparato ha colpito il braccio del ragazzo ed è poi arrivato al cuore, e il colpo sparato è arrivato al cuore del Paese, al cuore di tutti noi».

Il racconto l’ha diviso in due puntate.
«Sì, per stringerlo in una sola puntata avrei dovuto sacrificare molte cose, per cui ho preferito farne due, ma a distanza di soli due giorni. È un confronto molto intenso, drammatico. Le storie che affronto sono tutte complesse ma questa è stata ancora più difficile».

Come mai?
«Sono trascorsi quattro anni e se ne parla ancora oggi. Ma sono anche state raccontate tante cose inesatte. Vedremo se riuscirò a chiarire alcuni aspetti. E poi c’è la Cassazione che deve dare una sua risposta». 

Quanto tempo ha impiegato per preparare queste due puntate?
«Mi sono ammazzata in un mese e mezzo, sono “accis ‘e fatica”, per dirla in napoletano… sebbene io sia l’unica napoletana che non lo sa parlare (ride). Ho studiato gli atti del processo, la rassegna stampa e poi ho scritto la struttura narrativa. Sostanzialmente è come se ogni volta scrivessi un romanzo».

E proprio per la scrittura delle sue puntate ha appena ricevuto il Premio Hemingway, che è un premio letterario.
«Ne sono gratificata perché viene normalmente dato agli scrittori. E invece hanno aperto una nuova sezione proprio per me, che sono giornalista ma scrivo i testi per “Storie maledette” con una struttura narrativa particolare».

Il “metodo Leosini” bisognerebbe registrarlo con il copyright. Ce ne svela i segreti? Partiamo dalla scelta delle vicende.
«Non sempre la faccio in base alla notorietà. Le scelgo in base alla tematica, all’interesse che suscitano in me, a quello che io riesco a leggere in quella storia, e al personaggio, che mi deve incuriosire».

Nella storia di Vannini cosa l’ha colpita di più?
«Il fatto che gli splendidi 20 anni di questo ragazzo siano stati sconfitti da un colpo di pistola irresponsabile. Io cerco di mettermi nella mente e nel cuore dei genitori: come si riesce a sopravvivere?».

C’è una tipologia di vicende che non prende in considerazione?
«I miei interlocutori in “Storie maledette” sono tutti non professionisti del crimine. Sono persone come me e come lei, che a un certo punto della loro vita cadono nel vuoto di una maledetta storia, passando da una situazione di normale quotidianità all’orrore di un gesto estremo. Poi escludo nella maniera più assoluta la pedofilia e non ho mai voluto trattare storie nelle quali il movente del delitto fosse un dato esclusivamente economico. Quelle che a me interessano sono le grandi passioni umane, che sono l’asse portante delle nostre vite, che non sono solo storie d’amore, ma anche, per esempio, i rapporti tra genitori e figli».

Passiamo alla preparazione della puntata con il “metodo Leosini”.
«Mi studio tutti gli atti del processo. Nel caso di Avetrana ho letto le 10 mila pagine dei verbali. Sono ancora impilate su un tavolo nella mia redazione. Io di una storia devo conoscere tutto. E non solo i dati processuali. La mia struttura narrativa scorre attraverso un percorso che è psicologico, umano, giudiziario, culturale, ambientale. La cultura del posto è fondamentale. La provincia è l’asse portante della nazione, il cuore dell’Italia palpita in provincia, per conto mio, molto più che nelle città, che forse sono più distraenti. Nella provincia tutto si tiene, tutto si sa, tutto si racconta. E tutto si paga».

Esistono domande che non si possono fare?
«Qui c’è l’importanza della scrittura. Le domande bisogna porgerle con il dovuto rispetto. Io evito, a meno che non siano i miei interlocutori a farlo, di entrare nel vivo della descrizione del crimine. Non giro mai il coltello in una piaga che fa sanguinare innanzitutto me. Il mio percorso parte da lontano».

Dove comincia?
«Incontro prima in carcere una sola volta le persone che poi intervisterò. Le studio, guardo come si muovono, come parlano, come si dispongono al dialogo. Si deve creare un rapporto di fiducia: non puoi portare con te una persona nell’inferno del suo passato e metterla sotto le telecamere senza avere prima stabilito un rapporto. Le faccio parlare della loro vita passata, di quello che sognano, che pensano, ma non di quello che riguarda la vicenda che andremo a trattare insieme in onda. Una delle regole è: non devono mai conoscere in anticipo le domande che farò loro».

È una condizione che accettano?
«Per forza, per me è imprescindibile. Mi è capitato di rinunziare a tre mesi di lavoro su una storia, e 200 pagine già scritte, perché all’ultimo momento questo signore voleva conoscere le domande. Ho detto: “No, io non patteggio niente, lei non mi pone condizioni”».

Perché scelgono di parlare con lei?
«Perché ne hanno sempre un restauro di immagine. La realtà umana di queste persone al 90 % è diversa da quella legata al reato commesso e anche a quello che di loro hanno detto e scritto all’epoca dei fatti. La cronaca vive di emozione e di velocità sul momento, e va in orizzontale. Il mio è un racconto di storie sedimentate nel tempo, e va in verticale, nel profondo». 

Quando la persona che ha davanti le dice una bugia il “metodo Leosini” cosa prevede?
«Gliela lascio dire ma gliela contesto subito: “Lei mi sta dicendo questo, ma le ricordo che gli atti processuali e la logica vanno in un’altra direzione”. Ecco perché gli atti processuali li devo conoscere come il Padre nostro e l’Ave Maria».

Franca, non si capisce mai che idea si è fatta della persona che ha davanti.
«E non si deve capire. Studiando gli atti processuali io mi formo un’idea precisa di quella che potrebbe essere la realtà, però non faccio mai capire quello che penso, non devo protendere da nessuna parte. Non esprimo giudizi, cerco solo di capire cosa è accaduto e perché è accaduto, ed è il senso di queste puntate».

Le è mai capitato che qualcuno si alzasse e se ne andasse?
«No. Ma molti anni fa mi è capitato che il mio interlocutore si alzasse per saltarmi addosso e mettermi le mani al collo. Gli ho fatto una domanda che chiaramente non gradiva. Sono arrivati subito gli agenti di polizia penitenziaria e l’hanno bloccato. Purtroppo il regista ha sbagliato perché ha fermato le telecamere, avrebbe dovuto continuare a riprendere. Dopo un mese quell’intervista l’ho fatta: la persona ha chiesto scusa e il direttore del carcere gentilmente ha accettato di poterla rifare».

Cosa prevede in queste situazioni il “metodo Leosini”?
«Di restare impassibile, imperturbabile e non muovere un muscolo, io sono rimasta immobile. Mai mostrare paura».

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