Gigi Proietti è di nuovo in tv con «Cavalli di battaglia»

Quattro serate che raccontano una strepitosa carriera lunga più di mezzo secolo: «La mia vita è un film che non mi stanco di rivedere»

Gigi Proietti. In questi giorni il grande attore ha ricevuto il prestigioso Nastro d'argento alla carriera
31 Maggio 2018 alle 09:00

Ancora oggi, prima di ogni spettacolo, Gigi Proietti sputa sul palco tre volte. È un rituale scaramantico tipico della gente di teatro. Non lo fa solo ai debutti, ma tutte le sere. «E se me ne scordo faccio finta di guardare in quinta, mi giro indietro e zac! E poi devo spruzzarmi sempre addosso un po’ di antica colonia, quella che uso da sempre: se non sento il suo profumo mentre recito c’è qualcosa che non va. Infine mi metto un po’ di matita blu sotto le labbra, una cosa nata quando facevo il “Coriolano” di Shakespeare».

Siamo a Roma, al quartiere Prati, dietro gli studi Rai di via Asiago. Nello studio di Proietti vanno e vengono agenti, collaboratori, familiari. Mentre Raiuno ripropone le quattro puntate di «Cavalli di battaglia», il  grande show teatrale registrato a Montecatini due anni fa, Proietti finisce di mettere a punto la nuova stagione del Globe Theatre, il teatro shakespeariano che dirige a Villa Borghese, in attività da 15 anni. «Nessuno avrebbe scommesso sul suo successo» ricorda. «Solo a nominare Shakespeare una persona normale ti diceva che aveva altro da fare. E invece è partito subito bene e va sempre meglio. Shakespeare aveva anticipato un po’ tutto, i grandi sentimenti, lo studio delle psicologie. Secoli prima di Freud…».

Proietti parlerebbe di teatro per ore. «Ho fatto tutto, anche il clown, perché sono curiosissimo della teatralità, una cosa misteriosa o forse semplicissima». È passato dall’avanguardia allo spettacolo popolare, da Carmelo Bene allo sketch di rivista, da Fregoli al «Cyrano». «Non mi è mai piaciuto che si contrapponesse cultura alta a cultura popolare significando che è bassa. La cultura è…? La cultura è. Punto».

Fino all’ultimo respiro

Vittorio Gassman una volta gli disse che era maniacale. «Mi ci ha fatto pensare lui, ed era vero. Non avendo fatto accademie di teatro, cercavo di esercitarmi da solo, soprattutto nella dizione rapida. Provavo un monologo cercando di farlo con meno respiri, partivo con quattro e arrivavo a farlo con uno soltanto… un pazzo!». Un compagno mancato? «Con Alberto Sordi non ho mai fatto niente ma per la mia generazione era un idolo. Ricordo quando vidi “Un giorno in pretura”, dove nacque il personaggio dell’americano a Roma: usciti dal cinema parlavamo tutti come lui».

Il toro, Fabrizi e... Frassica

«Un altro grande era Aldo Fabrizi» prosegue Proietti. Mi parlò una volta di due monologhi, “La spacca del cocomero a Campo de’ fiori”, che sembrava una decapitazione, con questo rosso che colava, e “La corrida vista dal toro”, con l’animale che guarda il torero e dice: “E mo’ che vo’ questo?!”. Bellissimi. Mi aveva detto: “Poi te li mando” e non ci siamo più visti». Oggi apprezza Nino Frassica. «Ha scelto una delle cose più difficili in assoluto, il nonsense. Mi fa proprio ridere. Dico la verità, non è che siamo amici o ci frequentiamo...».
E la comicità? «È mistero, spiazzamento, verità deformata. I grandi comici del passato, come Totò, avevano tutti delle deformazioni. Per “La commedia di Gaetanaccio” di Luigi Magni chiamai a fare il papa un vecchio attore dimenticato, Riccardo Billi. Appena entrava in scena, un boato di risate: il comico quando è comico si riconosce subito».

La felicità non ha colore

Si sistema la folta chioma, bianca come panna montata. «Quando giravo le prime puntate di “Il maresciallo Rocca” i miei capelli erano neri. Dopo si cominciarono a vedere fili bianchi. Copriamo? Copriamo. Poi, copri e ricopri, mi sono trovato schiavizzato dalle tinte. Alla fine li ho lasciati crescere bianchi, e adesso sono felice».

L’importanza di chiamarsi Gigi

C’è stato un tempo in cui Gigi Proietti si chiamava Luigi. «Alla mia agente di allora Gigi sembrava troppo romanesco… Poi mi dissi: “Non vedo perché. Tutti mi hanno sempre chiamato Gigi…”. Non è stata una scelta pensata. In effetti nella mia carriera non ho programmato granché. Anche l’esito di “A me gli occhi, please”, per anni in cartellone, fu quasi casuale. Avevo fatto con Ornella Vanoni nel 1975 “Fatti e fattacci”, dove cantavo anche delle canzoni di Paolo Conte, di cui sono un patito. Con Roberto Lerici recuperammo da lì alcuni pezzi, e poi cose classiche, Petrolini, e abbiamo messo su questo spettacolo a Sulmona, in Abruzzo. Il titolo veniva da un pezzo piuttosto duro su un prestigiatore che diceva “A me gli occhi” e poi aggiungeva “Anche se non saprei cosa farmene dei vostri occhi...”». E fu successo. «Totalmente imprevisto. La gente veniva a grappoli. Non avevo capito la potenzialità. In fondo tutti i miei spettacoli vengono da lì, anche “Cavalli di battaglia” è un suo... nipotino».

E il maresciallo Rocca fece il botto

I lavori a cui è più affezionato in tv, al cinema e in teatro? «Per la tv, l’esito positivo del “Maresciallo Rocca”. Quando abbiamo saputo del botto della prima puntata stavamo ancora girando le ultime. Eravamo in mezzo a un campo, infangati, e sentiamo uno gridarci: “Amo fatto dieci mioniii”. Per il cinema sceglierei il periodo vissuto vicino a Tinto Brass, allora regista drammatico. A teatro rifarei tutto. Però per periodi più brevi, perché ogni spettacolo continuo a modificarlo, a perfezionarlo…».

Una pallottola nel cuore (anzi tre)

A 77 anni Proietti non ha alcuna intenzione di rallentare: è reduce da cinque mesi di riprese della fiction «La pallottola nel cuore», arrivata alla terza stagione. La vedremo su Raiuno in autunno.

Buon sangue non mente

L’ultimo film nel quale ha recitato è  “Il premio”, in cui veste i panni di un grande letterato che viaggia verso Stoccolma per ritirare il Nobel accompagnato dai figli ormai adulti. C’era il figlio di un suo vecchio amico, a dirigerlo: Alessandro Gassman. «Sul set ci siamo divertiti tutti molto. Ho ritrovato Alessandro, che conosco da quand’era bambino, bravissimo a dirigere gli attori, con sicurezza e senza mai prevaricare». Ora invece la sua mente è occupata dalle tre repliche di «Edmund Kean», a luglio al Teatro Romano di Verona. «È la vita del celebre attore inglese, che racconta la sua carriera, riempita di brani shakespeariani: un grosso esercizio di recitazione che Ben Kingsley faceva a Londra anni fa. Mi stanca tanto ma mi diverte moltissimo». Non pensa mai di abbandonare le scene? «Ogni tanto, con terrore. Succede quando sono molto stanco. Ma dopo pochi mesi il teatro mi manca…».

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