Giovanni Minoli: «La storia degli Anni 80? È passata tutta da “Mixer”»

Il giornalista rivisita il celebre programma e propone una scelta di servizi e interviste che ci fanno capire meglio un decennio decisivo

10 Gennaio 2023 alle 08:41

«Il mondo di oggi è cominciato ieri» dice Giovanni Minoli. E allora perché non riscoprire come tutto è cominciato? Con questo spirito, il giornalista ed ex direttore di Rai2 e Rai3 ha lavorato a “Mixer - Vent’anni di televisione”: un programma antologico che riproporrà il meglio della sua storica trasmissione, andata in onda dal 1980 al 1998.

Nella prima stagione ripercorreremo così gli Anni 80 e rivedremo le interviste a personaggi come Giorgio Armani, Ugo Tognazzi, Indro Montanelli, Cesare Romiti, Marisa Bellisario, Bettino Craxi, Gianni Agnelli, Paolo Rossi, Raffaella Carrà e tanti altri.

Minoli, cosa significano gli Anni 80 per lei?
«È un decennio che molti non capirono allora e continuano a non capire oggi. In quegli anni la modernità arrivò nella società italiana: la moda, la finanza, l’informazione globale... eppure c’è ancora chi li liquida con l’ironia sulla “Milano da bere”. Anche la tv cambiò, e “Mixer” ne è un esempio. Non sembra neppure una trasmissione di oggi, ma di domani. Perché era molto più veloce dei talk show che vanno di moda adesso: oggi con cinque ospiti fai due ore di trasmissione. Io in 100 minuti mostravo anche dieci servizi o reportage».

Che criterio ha seguito per scegliere questo o quel filmato, nello sterminato archivio della trasmissione?
«È semplice: in ogni puntata racconteremo un anno, e io introdurrò i servizi che meglio lo rappresentano e che sento più attuali. Per esempio nella quarta puntata vedrete un reportage di Marcella Emiliani sull’Islam e il burqa che sembra fatto oggi in Afghanistan».

Come nacque “Mixer”? Qual era il suo punto di forza?
«“Mixer” è nato con l’invenzione del telecomando e delle tv private. Decidemmo che, prima che gli spettatori cambiassero canale, lo avremmo fatto noi. E così ogni dieci minuti il programma cambiava. C’erano i confronti tra gli ospiti, poi il cinema curato da Leo Benvenuti, lo spettacolo di Isabella Rossellini, lo sport di Gianni Minà, e poi naturalmente i miei “Faccia a faccia”. Alla fine appaltavamo anche uno spazio a un comico (cosa che oggi fanno tutti) come Paolo Villaggio».

Parliamo di questi collaboratori d’eccezione. Perché proprio loro?
«Gianni Minà aveva la più incredibile agenda che abbia mai avuto un giornalista. Poteva alzare il telefono e chiamare Maradona o Cassius Clay. E sa perché? Perché era simpaticissimo. I personaggi lo adoravano. Leo Benvenuti, come sceneggiatore, ha fatto la storia del cinema. Isabella Rossellini aveva un caratterino puntuto ma era sempre preparata, molto professionale. Paolo Villaggio prendeva in giro Nilde Iotti ma non tutti lo capivano: era lei la “sindacalista impegnata” che però il marito lasciava sempre insoddisfatta».

C’era anche Sandra Milo...
«Era divertente e acuta, ma visto che era anche bellissima faceva la svampita per non spaventare noi uomini, poverini. La sua intervista a Niki Lauda è da antologia. Anche quella a Teddy Reno e Rita Pavone immersi in una piscina. Invece Maurizio Costanzo e Simona Izzo accettarono di entrarci, ma vestiti di tutto punto».

Il momento più memorabile però era quello delle interviste. Nei suoi “Faccia a faccia” lei ha incontrato tutti. Posso chiederle un ricordo personale di alcuni dei personaggi che rivedremo? Paolo Rossi?
«Una grande dolcezza. L’avevo intervistato sullo scandalo-scommesse ed era palesemente innocente, aveva lo sguardo frastornato dell’uomo che era stato preso in mezzo».

Yasser Arafat?
«Prima di incontrarlo ho dovuto girare due giorni bendato per Tunisi, dove si trovava allora l’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Gentilissimo nei modi, durissimo negli argomenti. Come il capo di Israele, Benjamin Netanyahu: due radicalismi sostanzialmente inconciliabili».

Gianni Agnelli?
«Divertente. Gli chiesi: “Ma perché ama Platini e non Boniek?”. E lui: “È bravo ma un po’ testardo. Sa, all’epoca della Seconda guerra mondiale i polacchi andavano a cavallo contro i carri armati, come i finlandesi. Ma solo i polacchi erano convinti di vincere”».

Adriano Celentano?
«Interpretava Adriano Celentano: il cantante più figo del mondo».

L’intervista più sorprendente?
«La scrittrice Marguerite Yourcenar mi chiese in che lingua volevo fare l’intervista perché lei parlava francese, inglese, spagnolo, italiano... Ovviamente scelsi l’italiano, ma mi accorsi che non lo era. Quello che lei credeva italiano era un misto di latino, spagnolo, citazioni letterarie varie e qualche parola imparata durante un soggiorno a Firenze di 15 giorni. Poi tra una risposta e l’altra si scriveva qualcosa sulle cosce, che erano enormi. Alla fine le chiesi un chiarimento e rispose: “Sa, mentre le parlavo mi è finalmente venuta in mente la giusta traduzione di un passaggio dall’aramaico a cui pensavo da giorni, e me la dovevo segnare».

L’intervista più difficile?
«Per avere Enrico Berlinguer dovetti “corteggiarlo” per un anno. A Henry Kissinger (segretario di Stato Usa dal ‘69 al ‘77, ndr) ricordai che aveva sostanzialmente suggerito ad Aldo Moro di “cambiare mestiere” e l’intervista divenne un corpo a corpo al limite dello scontro fisico. E l’ex capo della Cia Stansfield Turner mi piantò in asso perché non voleva parlare del caso Gladio».

Da quel che ha detto all’inizio non sembra un grande fan dei talk-show. Perché?
«Mi sembrano programmi fatti da bravi giornalisti della carta stampata che fanno quello che viene loro meglio: discutere e parlare. Ma se devi solo parlare, allora fai la radio. A “Mixer” l’immagine era curatissima. Abbiamo usato per primi il “green-screen” e anche le interviste più semplici mostravano sulle sfondo il volto dell’intervistato gigantesco, ripreso da tre punti di vista diversi. E sa perché? Perché così non andava perso neanche un dettaglio delle sue emozioni».

Seguici