Viaggio nel tempo: ispirate dal reality-rivelazione di Rai2, le star ci raccontano la loro gioventù. Da Lino Banfi a Giancarlo Magalli, passando per Vittorio Sgarbi

Se poteste fare un viaggio nel tempo, dove vi piacerebbe andare? Di certo la meta più gettonata non sarebbe un rigoroso collegio degli Anni 60. Ma è proprio quello che è capitato ai ragazzi del docu-reality di Raidue, intitolato «Il collegio», che si conclude lunedì 23 gennaio con la sua quarta puntata. Ambientata nel Convitto di Celana di Caprino Bergamasco, la trasmissione vede un gruppo di adolescenti fra i 13 e i 17 anni destreggiarsi con i riti di quel tempo, tra calamai pieni d’inchiostro e cucchiaiate di olio di fegato di merluzzo. L’obiettivo è conseguire la licenza media del 1960 abbandonando (non senza qualche trauma) gli amati smartphone. Il programma è seguito da due milioni di telespettatori e ha fatto nascere molte domande nel pubblico ma anche tra di noi della redazione. Ma era davvero così dura la vita in un collegio? O era persino più faticosa di quanto ci racconti questo show? Per rispondere ci siamo rivolti a un gruppo di star dello spettacolo che in un collegio ci hanno vissuto davvero. E quegli anni non se li sono dimenticati...

PIPPO FRANCO «Mi ricordo ancora la fame»
«Entrai in collegio nel 1946 dopo aver perso mio padre, che era stato fatto prigioniero in Africa. Gli istituti, a quei tempi, erano decisamente diversi da quelli di oggi. Si soffriva molto il fatto di dover stare tutti insieme in poco spazio. Si viveva come in una tribù, dove prevalevano da una parte il desiderio di comando e dall’altra l’emarginazione. Le punizioni corporali più diffuse erano le “spalmate”: un maestro, temuto anche dalle suore, usava dare le sue bacchettate agli alunni anche per i più piccoli errori. Un giorno avevo la mano destra gonfia e dolorante. Gli chiesi, con tono compassionevole (usai un’espressione tutta infantile: “Per pietà”) se potesse darmi la spalmata sulla mano sinistra. Ma lui, incurante, me la diede proprio sulla destra. Noi bambini venivamo trattati come animali da allevamento. Quando mi si chiede della mensa, il ricordo della fame è ancora vivissimo. A pranzo mangiavamo sempre le stesse cose e la cena era frugale, si arrivava la mattina con una fame da lupi. Per raggiungere i banconi dove c’era il pane si creava un corri-corri generale, ma io non ero veloce e così dovevo arrangiarmi. Con il tempo mi feci furbo, riuscivo a nascondere una rosetta nell’interstizio tra due tavoli. Rimasi in collegio tre anni e mezzo. Non vedevo l’ora di andarmene via».

RITA DALLA CHIESA «Nell’istituto ero una vera ribelle»
«Quando mio padre venne trasferito improvvisamente a Torino, si pose il problema della scuola. Mio fratello venne iscritto in un liceo del Nord Italia mentre io, per non perdere l’anno scolastico, fui costretta a frequentare il collegio dell’Arma dei Carabinieri in provincia di Roma. Furono quattro lunghi mesi con un pesante senso di costrizione. Dopo aver mangiato in mensa, andavamo a giocare e a pregare. Ero la più indisciplinata, venivo rimproverata spesso. Ogni giorno bisognava andare a messa ma io, una volta, decisi di rimanere in classe a ripassare la lezione ribellandomi di fatto alla loro imposizione. Anzi, esortai tutte le mie compagne a fare lo stesso. La rivolta venne sedata con parole dure. Nei letti, a turno, trovavamo i classici “sacchi” come divertimento serale. Fu un periodo malinconico e triste. Spesso mi isolavo per andare a guardare il tramonto e la mia bella Roma da lontano immaginando il giorno che sarei uscita dall’istituto…».

RICKY TOGNAZZI «I professori inglesi mi tiravano le scarpe»
«Mia madre era inglese ed era stufa di sentirmi rispondere solo in italiano. Così decise di mandarmi in un istituto di Birmingham, dove sono rimasto per cinque anni. Quel periodo lo ricordo come un momento tutto sommato felice della mia vita. Certo, non lo rifarei, perché ho ancora l’incubo di essere bocciato e dover ripetere l’anno in collegio. L’immagine ricorrente è quella dei dormitori. La sera, prima di andare a letto, c’era l’abitudine di leggere storie dell’orrore legate ai fantasmi e alle creature misteriose. Appena si spegneva la luce, cominciava la giostra. Rumori da ogni parte. C’erano dei compagni che, rischiando anche di cadere, si arrampicavano alle finestre per apparire all’improvviso e spaventare il poveraccio di turno. A sedare la rivolta delle camerate ci pensava un professore che ci coglieva sempre in situazioni imbarazzanti. Non mi piaceva studiare il latino e c’era un docente che mi tormentava per questo. Quando non rispondevamo, ci toccava in sorte la punizione corporale: il lancio della scarpa da ginnastica. Il nostro insegnante ne aveva una sempre sulla scrivania. Scriveva la parola cretino con il gesso e poi ce la tirava sul fondoschiena. Quel “complimento” ci restava impresso per tutta l’ora... e anche durante quelle successive».

DIEGO DALLA PALMA «Vittima dei bulli ma grazie al teatro mi sono salvato»
«Sono stato in collegio dai 12 anni e mezzo fino alla maggiore età. Il bilancio di quell’esperienza non è positivo. Ho dei pessimi ricordi. Sono stato prima in un istituto veneziano e poi a Padova. Ero figlio di pastori e venivo discriminato per le mie origini, ma anche per il mio aspetto fisico. Ero bianco in volto e magro, perché da bambino avevo contratto una forma grave di meningite. I medici mi avevano esonerato da tutte le attività ginniche e non potendo praticare sport non facevo parte di nessun gruppo. Ero la vittima preferita dei bulli. Persino un prete, un giorno, in segno di disprezzo, mi disse che puzzavo di vacca. Senza parlare della mensa: ai figli delle famiglie benestanti veniva servito a tavola il prosciutto crudo, a tutti noi bambini più poveri davano da mangiare la mortadella. Tra le punizioni corporali non dimenticherò mai quando mi legavano al letto. Era orribile! L’unico aspetto positivo, a Venezia, era quello di essere riuscito, grazie ad alcuni compagni, a entrare al Teatro La Fenice. Ricordo i pomeriggi trascorsi a guardare le prove degli artisti delle compagnie che periodicamente tenevano i loro spettacoli. Era un momento di evasione per me. L’arte e la musica mi hanno salvato dal suicidio».

Andy luotto «Mi punivano e io mi vendicavo a modo mio»
«Ho frequentato un collegio di suore, vivendo per tanti anni con l’angoscia che Dio potesse punirmi ogni volta che commettevo anche il minimo errore. Ero chiuso in quell’istituto insieme con mio fratello perché mio padre aveva lasciato mia madre e quindi lei non poteva prendersi cura di noi tutto il giorno. Le punizioni erano tremende: a noi maschi facevano indossare i vestiti delle femmine, deridendoci come dei pagliacci, dei buffoni. Credo che il mio lato comico sia nato proprio da questa brutta esperienza. La mattina ci svegliavamo alle 6.30 perché alcuni di noi venivano reclutati come chierichetti. C’era un’austerità indescrivibile in quell’ambiente, ma io riuscivo a sopravvivere facendo scherzi. Una volta misi l’effervescente Brioschi nel calice della messa. Una vecchietta, vedendo le bollicine, gridò al miracolo. Quando scoprirono che ero io il respondabile, arrivò la punizione: dovevo ripetere l’anno di cresima e studiare con i bambini più piccoli di me. Fu umiliante. L’anno successivo mi vendicai proprio durante il giorno della cresima. Le suore, usando un campanellino, chiamavano in rassegna davanti al vescovo i bambini che dovevano ricevere il sacramento. Ad ogni ”drin“ si alzava un ragazzino. Ma io nei giorni precedenti mi ero procurato lo stesso campanellino di metallo, così cominciai a farlo suonare ininterrottamente e in chiesa si creò una gran confusione, tant’è che il vescovo storse il naso e se la prese con le suore. Per fortuna riuscii a non farmi beccare!».

GIANCARLO MAGALLI «Di notte ci si intrufolava dalle ragazze»
«I miei genitori mi imposero di andare in un collegio svizzero durante l’estate per imparare il francese, cosa che effettivamente mi riuscì bene. Se me la cavo con questa lingua ancora oggi lo devo soprattutto al periodo trascorso in quell’istituto. Ricordo la severità delle regole. Una su tutte: non ti alzavi da tavola se non avevi finito di mangiare tutto quello che ti veniva servito. Una volta rimasi seduto fino alle tre del pomeriggio perché avevo difficoltà a deglutire l’ultimo dei pomodorini al forno, verso i quali avevo un’avversione totale. Nel pomeriggio dovevamo studiare e la sera ci chiudevamo nelle camerate. Noi maschi avevamo l’abitudine di fare le incursioni in quelle delle femmine, ma quando ci beccavano erano guai. Di scherzi ne facevo tantissimi. I più ingegnosi però li facevo a scuola, a Roma, anche se avevo la sfortuna di avere come compagno di classe il figlio del segretario della scuola, che riferiva tutto al papà. All’ultimo anno di ginnasio la feci grossa. C’era il compito in classe di greco e io non potevo assentarmi perché ero un “sorvegliato speciale”: se marinavo, la scuola chiamava a casa. Con molta abilità grafica, preparai un cartello con lo stemma del comune di Roma con una scritta a caratteri cubitali: “Ufficio Igiene e Sanità - Aula chiusa per disinfezione”. Lo apposi sulla porta dell’aula e chiusi. Quando il professore lesse il cartello, chiamò il bidello e allertò la segreteria, ma nessuno ne sapeva nulla. Morale: la versione di greco quel giorno saltò...».

Lino banfi «Invece di giocare, ho dovuto fare la scuola da sacerdote»
«Passai quattro anni in seminario in un paese poco distante dalla mia Canosa. Ai miei tempi in molte famiglie contadine c’era l’abitudine di far istruire i figli. Se alle elementari un bambino mostrava buone capacità, lo iscrivevano in seminario per farlo diventare prete, cioè una persona importante. Anche nella mia famiglia pensavano che sarei potuto diventare cardinale o papa. Con questi discorsi assurdi ti rovinavano la fanciullezza. All’età di 11 anni, a guerra appena finita, mentre gli altri bambini giocavano spensierati senza il tormento dei bombardamenti, i miei genitori mi costrinsero a responsabilizzarmi. Lo stile di vita era rigido, dovevamo solo studiare e pregare. Le punizioni erano terrificanti: dovevamo stare due o tre ore al giorno in ginocchio o chini a recitare preghiere. Il capoclasse, un giovane prete, aveva preparato due triangolini di legno, della dimensione di una gomma per cancellare, con su scritto “galateo” e “lingua“. Se ti comportavi male, ti piazzavano un triangolino in mano e dovevi sperare che un altro compagno sbagliasse, per passarlo a lui. Era uno stato continuo di agitazione. E poi c’era il momento dei salti mortali, la mattina e la sera, per vestirci o mettere il pigiama. I nostri letti erano divisi da piccole tende, per avere un po’ di privacy dovevamo fare mille acrobazie. C’era però un aspetto positivo: studiavamo l’italiano, la storia, la filosofia e il latino, e non c’erano altre scuole che potessero reggere il confronto».

ALESSANDRO CECCHI PAONE «Scoprii di essere stonato»
«Dai 15 ai 18 anni ho trascorso tutte le estati nel collegio inglese di Cambridge, frequentato da molti italiani. L’atmosfera era la stessa che viene descritta in molti libri e film. Ricordo ancora la figuraccia che feci durante l’esibizione per il coro delle voci bianche: ero così stonato che nemmeno le mie stesse orecchie sopportavano la mia voce… L’umiliazione fu così cocente che anche nei programmi tv non ho mai voluto cimentarmi col canto. La mia esperienza in collegio mi è tornata in mente vedendo i film di “Harry Potter”, con gli stanzoni con le volte gotiche dove si mangiava, le tavolate chilometriche... Ricordo anche uno scherzo di cui fui vittima. Organizzavano ogni anno delle piccole gare di canottaggio, sulla falsariga della regata Oxford-Cambridge. I compagni mi portarono in una zona paludosa e non avendo esperienza conficcai il palo (con cui si spinge la canoa, ndr) in un’area melmosa. Così loro andarono avanti e io rimasi fermo, e poi caddi nel fiume. È vero che era estate, ma era pur sempre un’estate inglese... Comunque l’esperienza in collegio è stata formativa sia dal punto di vista culturale che comportamentale: dopo il collegio, puoi fare tutto. C’è anche un ricordo romantico: là incontrai quella che poi divenne la mia fidanzatina, una simpaticissima ragazza svedese con cui ancora oggi ogni tanto mi sento».

LUCA SARDELLA «Odiavo gli odori delle cucine»
«Sono stato un paio di mesi in un collegio vicino a San Severo, il mio paese d’origine in provincia di Foggia. La mia famiglia era povera ma riuscì a farmi studiare perché ho sempre amato la scuola. Di quell’istituto però detestavo gli odori della cucina, che mi ricordavano quelli della colonia dove andavo da bambino. Erano penetranti e fastidiosi. Spesso con i miei compagni uscivamo di nascosto, ma poi al rientro venivamo puntualmente rimproverati dagli insegnanti. Avevamo l’abitudine di fare scherzi: facevamo sparire ogni giorno dalla cucina un ingrediente, una volta il sale, un’altra volta il pepe oppure altre spezie. La cosa positiva di quel periodo è che imparai a suonare la chitarra per fare colpo sui miei amici, ma soprattutto sulle ragazze».

lando buzzanca «Si dormiva e basta»
«All’età di 6 anni mio padre, per mettere la famiglia al riparo dai bombardamenti, ci fece trasferire da Palermo a Mazara del Vallo (TP). Per rendermi più obbediente e docile la mia famiglia mi iscrisse al collegio estivo per un mese e mezzo. Ricordo che ci facevano solo mangiare e dormire. Facevamo dei lunghissimi riposi pomeridiani che mi snervavano. Non vedevo l’ora di uscire da quella “prigione”. C’era un bimbo che ogni volta che mi vedeva mi voleva dare un cazzotto sulla faccia, e a volte ci riusciva. Ce l’aveva col mio naso».

Vittorio sgarbi «Fui sospeso per colpa dei miei libri proibiti»
«Sono entrato in collegio nel 1964 e ci sono rimasto per circa tre anni. Era in un palazzo bellissimo di Ferrara, ma c’erano regole ferree. Non è stata una permanenza idilliaca. Durante un’uscita, ci portarono sugli autoscontri. Invitai una compagna a salire con me sulla macchinina e un giovane prete, forse per una forma di gelosia, si vendicò in modo squallido: riferì al preside che avevo letto “Senilità” di Italo Svevo. Allora scoprirono nella mia stanza libri di Apollinaire, D’Annunzio e Goethe, proibiti in un luogo in cui gli unici testi consentiti erano “Pinocchio” e “Cuore”. Per punizione, venni sospeso per una settimana. Tra i compagni c’era il figlio di un ricco benzinaio che aveva un forziere pieno di formaggi e cioccolata. Quando i pasti della mensa erano deludenti “scassinavamo” lo scrigno per sottrargli le sue prelibatezze».