Paolo Del Debbio e “Dritto e rovescio”: «Populista? Per me non è un’offesa»

Col suo programma su Rete 4 fa ascolti record. «Perché parlo in modo chiaro» dice. «Sono nato a Lucca da una famiglia semplice» racconta il giornalista. «È naturale che da sempre mi interessino i problemi della gente comune»

Paolo Del Debbio
9 Gennaio 2020 alle 16:01

Quando arriviamo sotto casa sua, un bel palazzo nel centro di Milano, ci accoglie la signora Lata, la portinaia nata in Sri Lanka e da tanti anni nel nostro Paese. «Dottor Del Debbio è sempre allegro, sorride, è tanto gentile, un bambinone!» dice. Non resta che verificare di persona se è davvero così...

Il conduttore arriva, saluta cordialmente, ci fa accomodare nel suo studio e inizia a giocherellare con un accendino rosso e il sigaro toscano. Per rispetto non vuole accenderlo ma, accordatogli il permesso, la chiacchierata può iniziare.

Dottor Del Debbio, il suo programma tocca l’8% di share con una media di 1 milione e 400 mila telespettatori. Secondo lei perché è così seguito?
«Il motivo è semplice: io uso un linguaggio esplicito senza troppi giri di parole e a casa lo apprezzano. In studio, poi, c’è sempre il pubblico parlante. Quindi il politico di turno è costretto a rispondere direttamente alle domande della gente, non a un altro politico suo avversario. Ciò fa sì che si parli di problemi concreti, quelli che interessano davvero ai telespettatori».

C’è chi dice che lei è popolare perché il suo modo di fare tv è “populista”.
«Io mi considero un “popolano” piuttosto. Quella del populismo è una vecchia accusa. Ma per me populista non è mica un’offesa, anzi. A me piace essere dalla parte della gente comune e difendere i suoi interessi».

Di quali argomenti si occuperà in questo 2020?
«Cercherò di capire che anno economico abbiamo davanti. Dal punto di vista delle nostre tasche, ovvio».

Si è fatto un’idea di come potrebbe essere?
«Non peggiore del 2019. Non farà grandi balzi in avanti, ma sono abbastanza sicuro: non vedo peggioramenti in arrivo».

Il suo programma si intitola “Dritto e rovescio”, due colpi del tennis. Lei lo pratica?
«No, mai praticato il tennis. Da ragazzo ho giocato un pochino a ping pong, però. Ma solo perché il mio amico Enrico, che era un campione, ogni tanto mi concedeva di fare una partitella con lui anche se ero una schiappa».

Riferito all’informazione che cosa vuol dire “Dritto e rovescio”?
«Che bisogna mostrare sempre almeno due aspetti del problema, sentire due voci, governo e opposizione, inforcare due paia di occhiali per vedere le cose».

Un colpo al cerchio e uno alla botte?
«Non ne ho bisogno, ho il lusso di poter fare quel che mi pare. I miei programmi, quando li faccio, sono liberi. Se sto a riposo, seguo le mie cose, scrivo i miei libri, ma quando vado in onda decido io. E l’azienda, devo dire, mi lascia sempre libertà».

Il suo nuovo libro è un’inchiesta sui rischi che corrono i ragazzi nati nell’era digitale. Perché ha scelto questo tema?
«In Italia ci sono oltre 300 mila ragazzi tra i 12 e i 15 anni dipendenti da Internet. Il 25,6 % degli adolescenti, uno su quattro, si sveglia una o più volte durante la notte per controllare WhatsApp. Sono dati preoccupanti, mi hanno colpito e ho approfondito».

Le sue figlie sono “fuori pericolo”: hanno passato da un po’ l’adolescenza.
«Maddalena ha 30 anni, Sara 27, sono adulte ormai».

Seguono le sue orme?
«No, lavorano in altri ambiti. Sara per una Ong, un’associazione che si occupa di Africa. E Maddalena in un’agenzia di produzione. Le ragazze sono il mio punto di riferimento. Quando mi sento smarrito parlo prima con loro, poi cerco la forza dentro me stesso».

Che padre è?
«Sono stato un papà separato (e sono single ancora oggi), con le difficoltà che questo comporta. Spesso sono stato lontano per motivi di lavoro ma, quando c’ero, con le mie figlie ho sempre parlato di tutto, anche di argomenti di cui per pudore a volte si tace».

I suoi fratelli si chiamano Roberto e Roberta. È curioso che portino lo stesso nome.
«Già. Ci mancava solo che mamma e papà chiamassero anche me “Robertino”. Con i miei fratelli ci siamo molto divertiti. Sono nato a Lucca in una famiglia umile. Ma ho passato un’infanzia e un’adolescenza felice assieme a loro, spensierata. Casa era un porto sicuro, anche se non avevamo tanti giocattoli e quindi noi si improvvisava».

Giochi strani?
«Spericolati! Per anni nel nostro quartiere c’è stato un cantiere e noi ci arrampicavamo sulle gru. Siamo vivi per miracolo (ride). Roba che oggi si chiamerebbe il Telefono Azzurro, il Garante dell’Infanzia, il Tribunale dei minori...».

Quando ha deciso di diventare giornalista di professione?
«Tardi, a 48 anni. Ero editorialista a “il Giornale”, quando lo dirigeva Maurizio Belpietro. E non le nascondo che quel periodo mi manca. Fu Silvio Berlusconi a consigliarmi la tv. Mi vide parlare in pubblico a un convegno di politica, perché tra le altre cose ho fatto anche l’assessore alle Periferie a Milano. Secondo lui ero adatto. E alla fine ha avuto ragione».

I suoi studi però andavano in un’altra direzione.
«Ho studiato Filosofia alla Pontificia Università della Santa Croce, a Roma, perché mi interessava moltissimo l’aspetto religioso e teologico. In fondo sono contento dei miei studi perché aprono la mente. Non è un caso che tante aziende in America assumano filosofi adesso».

Lo sa che la portinaia del suo palazzo dice in giro che lei è sempre allegro come un bambinone?
«Ah sì? Comunque è vero, verissimo: io scherzo sempre. E Lata è una grande!».

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