Un viaggio al centro del giallo, quello reale che leggiamo tutte le settimane nelle pagine di cronaca. Da sabato 24 novembre in seconda serata su Raitre arriva la seconda stagione del programma

Un viaggio al centro del giallo, quello reale che leggiamo tutte le settimane nelle pagine di cronaca. Da sabato 24 novembre in seconda serata su Raitre arriva la seconda stagione di «Commissari - Sulle tracce del male», il programma condotto da Pino Rinaldi e realizzato con la collaborazione della Polizia di Stato. La formula rimane quella della scorsa edizione: protagonista di ognuna delle otto puntate sarà un commissario di polizia che racconterà dettaglio dopo dettaglio un caso di cui si è occupato.
Pino, nel primo episodio cosa vedremo?
«Andremo a ripercorrere con gli occhi del commissario Sebastiano Bartolotta il famoso caso della donna di Cocquio Trevisago, in provincia di Varese, che fu ritrovata morta con le mani tagliate. Partiremo dalla prima telefonata che riceve Bartolotta in cui gli comunicano l’omicidio fino alla scoperta quasi casuale della traccia che porterà all’assassino. Un indizio lasciato dallo stesso killer, che commise un errore grossolano».
Secondo lei esiste il delitto perfetto?
«No, i geni del male non esistono. Anzi, posso dire che il male è di una banalità totale. Quando non si riesce a trovare il responsabile di un omicidio l’errore è, piuttosto, di chi indaga. Ma chi commette un delitto qualcosa lo sbaglia sempre».
Negli ultimi anni c’è stato un boom di fiction e telefilm con protagonisti commissari e ispettori. Lei meglio di tutti può dirci quanto siano realistici...
«Diciamo che queste serie vivono più della bellezza del personaggio piuttosto che sul meccanismo narrativo del giallo in sé. Spesso ci sono ingenuità molto inverosimili. Naturalmente ci sono delle eccezioni. Per esempio trovo che Rocco Schiavone sia un capolavoro, anche dal punto di vista del realismo delle indagini. È quello che si avvicina di più alla verità».
Nel vostro programma emerge anche l’umanità di questi uomini di legge.
«È vero. Pensate che in una puntata c’è un poliziotto che scoppia a piangere. Nonostante siano persone abituate a vedere le scene più efferate, quando si ritrovano faccia a faccia con me emerge tutta la loro sensibilità. Alla fine dobbiamo ricordarci che sono uomini e donne come tutti, con paure e preoccupazioni».
Se non fosse diventato giornalista, le sarebbe piaciuto fare il poliziotto?
«Forse avrei preferito la carriera da magistrato. Anche se dopo 30 anni passati a raccontare il “male”, prima a "Chi l’ha visto?" e oggi a "Commissari", ho vissuto come una boccata d’aria fresca il mio spazio a "La vita in diretta" dove intervisto persone che parlano solo di storie positive. Avere sempre a che fare con situazioni così cupe è una cosa che finisce per stancare».