“Quarto grado”, Gianluigi Nuzzi: «Stavolta ritorno sulla strada anch’io»

«Per seguire alcune storie lascerò lo studio e indagherò in prima persona» racconta a Sorrisi lo Sherlock Holmes di Mediaset. Al via venerdì 20 settembre l’appuntamento di Rete 4 con gli avvincenti casi di cronaca

Gianluigi Nuzzi in versione Sherlock Holmes
20 Settembre 2019 alle 09:00

Le trasmissioni televisive vanno in vacanza, il crimine purtroppo no, anzi, in estate spesso avvengono i delitti più efferati. Ecco perché “Quarto grado”, l’approfondimento giornalistico condotto da Gianluigi Nuzzi con Alessandra Viero, che torna in onda venerdì 20 settembre, ha già una scaletta densissima.

«Cominceremo con l’attualità, occupandoci del delitto di Elisa Pomarelli, avvenuto nel piacentino ad agosto» ci spiega Nuzzi «ma più avanti avremo un’esclusiva molto importante sul delitto di Roberta Ragusa. Per l’occasione io stesso sto realizzando un servizio da inviato, una delle rare volte che lo faccio».

Come mai proprio quel caso?
«Lo ritengo emblematico. Il marito è stato condannato in Cassazione, ma manca il corpo della donna. Un corpo che darebbe pace a chi vuole pregarla e risposte a chi, come i figli di Roberta, ritengono che il papà non sia l’assassino».

Che rapporto avete con gli inquirenti? In fondo siete quelli che spesso riaprono casi in cui loro ritengono di avere già fatto tutto il possibile...
«Il rapporto è buono, collaborativo. Gli inquirenti sono i primi a capire che la tv offre degli strumenti che possono rivelarsi utili. Banalmente il solo mostrare un identikit in tv lo rende visibile a milioni di persone e può portare risultati importanti. Inoltre per molta gente è più facile confessarsi in tv che non andare in caserma e firmare un verbale».

I miei vecchi caporedattori m’insegnavano che se un delitto non ha una svolta nelle prime 48 ore quasi sempre rimane insoluto. È ancora vero?
«È statisticamente ancora abbastanza vero. È anche un dogma, però, eroso dai progressi della scienza nelle investigazioni. Oggi le nuove tecnologie possono cambiare le carte in tavola. Prendiamo il caso di Yara Gambirasio. L’ergastolo a Massimo Bossetti è stato possibile grazie a nuove tecniche impensabili 20 anni fa».

A un ipotetico stagista quali regole base darebbe?
«Nei miei libri cerco, studio e seleziono migliaia di documenti. La raccolta di informazioni è la cosa più importante, così come la lettura degli atti. La nostra curatrice Siria Magri e la caporedattrice Rosa Teruzzi divorano chilometri di carte. Se non sai, come fai a raccontare?».

E sul campo?
«Avere un pizzico di malizia, velocità, astuzia e molta determinazione».

Trucchi?
«Penso che in questo lavoro ci sia una profondità psicologica che si racconta poco. Il nostro lavoro è profondamente relazionale. Una persona si deve fidare di te per confidarti una cosa, deve trovare l’agio e il ristoro per credere che con te si possa condurre una battaglia. Sono dei ponti che bisogna sapere costruire con chiunque, anche con chi ti sta antipatico».

C’è rivalità con i colleghi?
«In genere c’è una sana competizione. A volte invece è un po’ meno sana... Non amo chi va dai parenti delle vittime e dice: “Parlate solo con noi”. O gente che pur di carpire un’intervista si spaccia per psicologo, medico. Ho visto di tutto: un giornalista che si finge medico e non solo non è medico, ma neppure giornalista!».

I delitti, dal punto di vista del racconto, sono tutti uguali?
«No. Ogni delitto è figlio di un dramma e ogni dramma è unico, perché c’è l’individualità dei soggetti che non è replicabile. Poi le modalità possono assomigliarsi, ma ogni delitto ha una sua identità nera che va scoperta. Dietro ci sono sempre delle storie uniche».

Perché i delitti che fanno più scalpore sono quelli dell’uomo comune?
«Un delitto di mafia non viene raccontato dai grandi media a meno che non sia una strage. Appartiene alla criminalità, non alla comunità. Sono storie che possono più ispirare la cinematografia che essere raccontate dalla cronaca dei grandi giornali. Un delitto in ambito familiare, invece, sollecita molto di più l’apprensione e lo stupore: ti colpisce di più l’incensurato che uccide, non il killer pagato per farlo».

C’è un grande caso di cronaca che avrebbe meritato un racconto migliore?
«Il caso Orlandi. Non si è mai raccontata la storia dei depistaggi: chi e perché ha speculato ai danni di questa povera ragazza. Questa parte svelerebbe esattamente chi ha avuto un ruolo nella vicenda. Manca un bel libro sui grandi depistaggi italiani».

È un annuncio?
«Oh no, sto lavorando ad altro, ma è presto per parlarne».

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