Stella Pende: «Cerco sempre la pace nei luoghi di guerra»

È protagonista di "Confessione reporter", il programma giornalistico di Rete 4. Con il suo sguardo sempre in movimento e la voce decisa riesce a coinvolgerti nelle avventure che racconta

Stella Pende durante un reportage ad Amman, in Giordania  Credit: © Pigi Cipelli
18 Giugno 2019 alle 09:00

Un’ora e mezza di conversazione con lei è sufficiente per confermarti l’orgoglio di fare il giornalista. Con il suo sguardo sempre in movimento e la voce decisa Stella Pende riesce a coinvolgerti nelle avventure che racconta. Ti illustra quello che ha vissuto da inviata in giro per il mondo scegliendo con cura ogni parola.

L’occasione della nostra chiacchierata è la 12a edizione di “Confessione reporter” in onda su Rete 4. «Il mio è un programma “infrangibile”, che il pubblico segue da anni perché sente la passione stellare che ci metto dentro» mi spiega sorridendo. «I temi che tratto sono spesso difficili. A me piace dare voce agli indifesi, a chi non può urlare il proprio dolore».

Nelle prossime puntate di cosa parlerà?
«Stiamo ultimando quella sui figli dei “foreign fighters” dell’Isis (i combattenti volontari stranieri assoldati dal califfato, ndr). Oggi molti raccontano la balla che l’Isis è vinta. La verità è che in Iraq è presente a macchia di leopardo, in Siria tiene in pugno molte zone. I “foreign fighters” che sono andati a combattere nelle file dell’Isis tengono in ostaggio nei campi profughi i bambini rimasti soli. Mi sono chiesta che fine faranno questi ragazzini che sono cresciuti nella violenza, che vedono ogni giorno tagliare le teste e scorrere il sangue. Poi siamo andati in Romania, a Iasi, all’Ospedale Socola, dove curano le badanti affette dalla cosiddetta “Sindrome Italia”. Si tratta di disturbi mentali e depressioni che colpiscono le donne rumene che hanno lavorato come badanti o colf in Italia in condizioni esasperanti. Condizioni che non permettono mai di dormire: vengono continuamente svegliate dagli anziani e dai malati che assistono. E poi c’è l’altra faccia della medaglia: ho intervistato in Romania i bambini che vivono tanto tempo senza avere accanto la propria mamma che lavora in Italia per mandare loro i soldi».

Una vita in giro per il mondo a fare reportage: lei è una donna coraggiosa. Ma le è mai capitato di avere paura?
«Sì, quando hanno ammazzato Osama bin Laden. Sono stata la prima giornalista europea ad arrivare sul posto, 14 ore dopo l’uccisione nel compound di Abbottabad, in Pakistan. Avevo uno “stringer” (giornalista e interprete nelle zone di guerra, ndr) completamente terrorizzato. Il posto era circondato dalla polizia locale, per cui dovevamo superare le transenne. Lo “stringer” batteva i denti, ma io me ne sono fregata e sono andata avanti. Dopo cinque minuti me lo sono trovato vicino. Era così esile che la sua paura sormontava la sua corporatura... In quel momento una guardia mi ha sollevato e messo da parte. Poi, rivolgendosi allo “stringer”, gli ha detto che lo avrebbe portato in carcere. Io ho pregato in tutte le lingue del mondo il miliziano che non lo portasse via. E dopo una scena madre memorabile mi ha ascoltato e lo ha liberato…».

Qui ha avuto un coraggio da leone. Ma la paura?
«Per scoprire il vero rifugio di bin Laden mi sono fatta indicare il percorso per arrivare alle grotte. Mi vengono ancora i brividi a pensarci… Chiesi al cameraman di proteggersi mentre io mi dirigevo verso le grotte. “Questo è il vero rifugio di bin Laden!” dissi, dopo di che sono corsa via mentre vedevo delle ombre muoversi… Lì ho davvero rischiato grosso».

Un altro episodio?
«Quando i talebani ci hanno portato via. Emma Bonino, all’epoca Commissario europeo, scelse un gruppo di giornalisti per visitare gli ospedali dove donne e uomini venivano smistati. Le donne erano senza velo, in camicia da notte. Una collega le riprese suscitando l’indignazione della direttrice dell’istituto, che chiamò la polizia. Sono arrivati con sette fuoristrada, ci hanno presi e legati. Ero convinta che ci avrebbero tagliato la gola».

Cos’ha pensato in quell’istante?
«Alle cose più piccole della vita (sorride). Pensavo che se fossi morta in quel momento mi avrebbero trovato trasandata, vestita male. E mi dicevo: “Chi farà studiare mio figlio?”».

Come si è salvata?
«C’era un giovane talebano di 15 anni che mi sorvegliava. Ho cominciato a parlargli facendomi raccontare la sua storia. Era stato rapito dai talebani a 11 anni e da quattro non vedeva i suoi genitori. Il suo sogno era quello di fare il medico. Tramite questo ragazzo abbiamo fatto capire agli altri che potevano bruciare la cassetta con le nostre riprese».

C’è stato un episodio, o un incontro, che le ha fatto cambiare idea?
«Siamo ancora nel capitolo delle paure. Guerra in Iraq. Ero riuscita a ottenere il visto. A mio figlio dissi che sarei andata a Ostia ma lui, avendo capito tutto, mi disse: “Mamma, se entri in Iraq dopo non ti voglio più vedere perché sto troppo male”. Con il cuore in gola partii per Baghdad. La sera prima ero terrorizzata. A colazione incontrai una collega dell’Ansa che mi vide stravolta. Le raccontai di mio figlio e lei, con gli occhi lucidi, mi rispose: “Ho perso un figlio di 19 anni e non sai cosa darei per averlo con me. E tu che fai? Il tuo ragazzo ti chiede di stare con lui e tu vai via?”. Morale: rinunciai a quella trasferta e ritornai da mio figlio».

Si è mai pentita?
«No. Avevo troppa paura di tradire quella promessa fatta a mio figlio. Bisogna avere rispetto della maternità».

Ogni tanto riesce a ritagliarsi del tempo per sé?
«Sono vigile 24 ore su 24. Abito in una casa che se Almodóvar la vede ci gira un film. Con noi vivono un “tato” indiano che ha cresciuto mio figlio Nicola e Alima, la bambina che ho adottato 12 anni fa in un orfanotrofio africano. Era malata di leucemia, in Italia l’ho fatta curare e ora è una bella ragazza di 21 anni».

Lei ha una grande personalità. Chissà quanti uomini intervistati si sono innamorati di lei…
«Nessuno, credo. Perché quando non sono interessata creo subito un clima da caserma. Lo dico con orgoglio: non c’è mai stato nessuno che si sia preso la libertà di molestarmi...».

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