L'attore è, con Gianna Nannini e Asia Argento, uno dei giudici di “The Band”, il talent show condotto da Carlo Conti

Carlo Verdone è, con Gianna Nannini e Asia Argento, uno dei giudici di “The Band”, il talent show condotto da Carlo Conti.
Carlo, come sta andando?
«È la mia prima esperienza come giudice in un programma televisivo e devo dire che mi sto divertendo molto».
Oltre al divertimento c’è anche un pizzico di responsabilità nei confronti dei giovani in gara?
«Certo! Un po’ di responsabilità la sento perché non sono dei veri professionisti, ma hanno una grande passione e un approccio serio alla musica».
La musica è un capitolo importante della sua vita. Le fa compagnia durante il giorno?
«Solo in due momenti: la mattina sotto la doccia e quando sono in macchina».
E canta sotto la doccia?
«No no, sono stonato come una campana!».
Neanche in macchina da solo con i finestrini alzati?
«No, quelli che cantano non sono in sintonia con la bellezza della canzone ma ci vanno sopra con la loro voce, io preferisco “assorbirlo”, il brano».
Cosa intende?
«Di solito metto musica un po’ complicata che... posso sentire solo io. Se c’è qualcun altro in macchina si annoierebbe».
Qual è la musica complicata?
«Non commerciale. Per esempio Scott Walker, che non conosce praticamente nessuno! È stato un grandissimo cantante partito negli Anni 60 in maniera pop poi, sperimentando, è arrivato a fare cose azzardate, come dei recitativi con della musica dodecafonica sotto... Non è roba da far sentire a chi viaggia in macchina con te!».
Quando si vuole rilassare cosa ascolta?
«Qualche vecchio disco di David Sylvian, che è sempre stato un mio pallino».
E quando vuole darsi la carica?
«In quel caso ci sono gli Who, i Led Zeppelin, i Cure, i Pink Floyd... vado sul sicuro, insomma».
E quando lavora?
«Se sto scrivendo una sceneggiatura, la musica non deve esserci, mi disturba moltissimo, non mi fa concentrare. Il discorso è diverso se scrivo un libro. Lì ci può essere un capitolo che ha un’atmosfera particolare, più malinconica, in quel caso metto un sottofondo di musica minimalista, a bassissimo volume».
Cosa intende per musica minimalista?
«Ha presente quei brani solo strumentali di musica eterea, da accompagnamento di installazioni artistiche? Quella che non dà il minimo fastidio».
Lei ha una collezione sterminata di dischi, di che cifra parliamo?
«È un conto difficile, tra Lp in vinile e cd potremmo essere sui 4.000».
Come li ha organizzati?
«Per ordine alfabetico, dalla A alla Z».
Alla Z chi abbiamo?
«I ZZ Top, gli Zero 7...».
L’alfabeto della musica è completo a casa sua... non c’è una lettera scoperta?
«Anzi. A volte prima di arrivare al disco che stai cercando devi camminare lungo gli scaffali per un bel po’ (ride)».
Il primo concerto a cui ha partecipato?
«Quello dei Beatles a Roma al Teatro Adriano nel 1965. Devo dire che ho ascoltato molto poco perché le ragazze urlavano in modo tale che seppellivano i poveri Beatles, che pure avevano il volume sparato. Ero in un palco con mio padre che aveva preso i biglietti e sotto avevo i miei idoli: è stato meraviglioso, una grandissima emozione. Solo che il concerto durò 39 minuti».
Come mai?
«All’epoca duravano meno di adesso. Ma allora successe che un cretino all’ultima canzone è salito sul palco per prendere il berrettino a John Lennon. Ci è riuscito, però Lennon si è messo paura, ha buttato per terra la chitarra ed è scappato, seguito dagli altri Beatles. Il cretino ci aveva rovinato il finale: ricordo ancora le parolacce che si è beccato!».
Un concerto indimenticabile?
«L’ultimo dei Verve, una ventina di anni fa. Non lo posso dimenticare ma per una ragione particolare. Io ho una fobia. Non solo sono astemio, ma non sopporto nemmeno l’odore dell’alcol. È più forte di me. Se qualcuno apre una bottiglia di champagne, io per evitare il tappo che salta e il rischio di essere schizzato cambio proprio stanza».
E il concerto?
«Andai alla Brixton Academy a Londra per quella serata storica. Entrai in una bolgia infernale e dopo qualche secondo cadde dalla galleria il contenuto di un boccale di birra: mi prese in pieno. Avevo birra sui capelli, sul collo, nella camicia: diventai pazzo. Tornato in hotel mi sono buttato sotto la doccia. I vestiti li ho lasciati nel cestino della stanza. È stato un concerto indimenticabile, per certi versi (ride)».
Ricorda il primo disco che ha comprato?
«Come no? “Twist and shout”, il primo 45 giri della mia collezione».
Ce l’ha ancora?
«Certo!».
Ricorda il brano che ha accompagnato il suo primo bacio?
«“San Francisco” di Scott McKenzie. Una bandiera degli hippy contro la guerra, un pezzo romantico, che inneggia alla pace e all’amore».
La band della sua vita?
«I Beatles sono su un altare, stanno là e sono intoccabili. Ma dopo ci sono i Led Zeppelin».
L’artista più geniale di sempre?
«Mi piacciono Marvin Gaye e James Brown, e tra le donne Annie Lennox e Kate Bush».
Un artista di cui conosce tutti i pezzi a memoria?
«I Beatles, gli Who, i Led Zeppelin, i Pink Floyd».
Lei suona la batteria da sempre. Come è nata questa passione?
«Mio padre era nato a Siena e mi portava spesso al Palio. Ero incantato dalle bandiere e dal suono dei tamburi nei vicoli. A 9 anni mi arrivò in regalo il tamburino, a 14 la mia prima batteria. Da ragazzo ho avuto due gruppi: i “The sound’s players” e poi i “Voodoo”».
Era bravo?
«Diciamo che tenevo bene il tempo! In realtà fino a 27 anni ero bravino, poi ho perso l’esercizio e l’ho recuperato negli anni. Oggi suono con mio figlio che è un bravo chitarrista».
La sua band dei sogni con lei alla batteria come si compone?
«Parliamo di sogni? Se i Led Zeppelin fossero ancora in attività pagherei per suonare un brano con loro... Anche se poi sicuramente li porterei alla rovina dopo l’esibizione (ride)».