Il nostro fuoriclasse dei fornelli si è unito a quelli di altri otto Paesi nel nuovo cooking-show di Netflix, che è una sorta di «mondiale» o «Champions league» delle gare culinarie
Forse l’idea Carlo Cracco l’ha rubata a Nero Wolfe. Nel romanzo «Alta cucina», il detective-buongustaio partecipava a un raduno dei più grandi cuochi del mondo. Allo stesso modo, il nostro fuoriclasse dei fornelli si è unito a quelli di altri otto Paesi in «The final table», il nuovo cooking-show di Netflix, che è una sorta di «mondiale» o «Champions league» delle gare culinarie.
Noi di Sorrisi lo abbiamo pedinato fino a Los Angeles. E dopo aver rischiato di perderci tra i vialoni a sei corsie di una sterminata periferia americana, costellata di palme e baciata da un sole «assurdamente» torrido, siamo riusciti a ficcare il naso tra le segretissime quinte dello show, che si gira in uno studio gigantesco.
«Per me è un onore essere qui a rappresentare la cucina italiana» ci dice Cracco in una pausa, prima di schierarsi dietro a un tavolo ad arco con gli altri otto maestri per degustare i piatti di 24 colleghi meno famosi, arrivati fin qui da tutto il mondo per fare il tanto sospirato salto di qualità. L’obiettivo è eleggere l’unico concorrente degno di sedersi tra i «Nove Grandi» al banchetto finale: «The final table» del titolo, appunto.
Lo studio di «Final table» e i cuochi ai fornelli
La gara già ferve. Nello spazio scintillante, che più che una cucina ricorda un’astronave, tra specchi, megaschermi e pareti argentee, i concorrenti ricreano i piatti di uno dei Paesi prescelti. Ogni puntata è dedicata a una nazione diversa. E quando tocca all’Italia, gli schermi sopra i concorrenti si colorano di verde, bianco e rosso mentre sullo sfondo campeggiano le immagini del Belpaese. Cracco, esigentissimo, annuncia i piatti da cucinare, dispensa consigli direttamente in inglese e controlla il risultato finale (spesso limitandosi a una... annusata da cui sembra già capire tutto).
Certo però che fa un po’ strano vederlo qui dopo il suo addio a «MasterChef», ma lui spiega: «A “MasterChef” credo di aver dato abbastanza in sei anni, e poi sono format completamente diversi. Qui l’accento è sull’incontro tra culture lontane e posso essere più gentile». E allora a «Hell’s Kitchen», che ancora conduce? «Lì è ancora diverso, devo essere duro. Insomma, i format sono come le ricette: se mi chiedi gli spaghetti al pomodoro io li posso interpretare con il mio tocco personale, ma mica posso farti un pollo arrosto!».
Al fianco di Cracco compaiono altri personaggi a rappresentare il nostro Paese, tra cui il calciatore Alex Del Piero. «E lui che c’entra?» chiedo ingenuamente. «C’entra» dice Cracco «perché il campione del mondo del 2006 oggi vive proprio qui, a Los Angeles, e qui ha aperto il ristorante “N°10”. È perfettamente in sintonia con lo spirito del programma, che celebra il dialogo tra culture».
Questo dialogo allo chef sembra piacere proprio tanto, e perciò gli chiedo quale cucina del mondo ami di più: «Non posso scegliere, è come con i figli. Cerco gli incontri. Se rifiutassimo di mischiare le tradizioni dovremmo dare indietro la metà dei nostri ingredienti, a cominciare dal più buono: il pomodoro! L’abbiamo “rubato” al Messico, ma poi i nostri contadini e agronomi l’hanno talmente modificato che adesso quello italiano è il più buono del mondo. Anche la nostra cucina viene reinterpretata dagli altri: un concorrente mi ha presentato un piatto basato sulla tradizione del suo Paese e ci ha messo il parmigiano».
C’è però chi dice che Cracco fa troppa tv e poi rischia di perdere per strada qualche «stella». Ma lui risponde: «Oggi uno chef non può più stare solo dentro al ristorante, se no non va avanti. In tv promuoviamo l’amore per la cucina. I cooking-show hanno fatto moltissimo in questo senso».
Finita la puntata c’è ancora il tempo di scambiare quattro chiacchiere con i cuochi di tutto il mondo che compongono la giuria. E scoprire che il giapponese Yoshihiro Narisawa è simpaticissimo e l’americano Grant Achatz è molto esigente; lo spagnolo Andoni Luis Aduriz non disdegna il baccalà (e chi avrà più il coraggio di chiamarlo «un piatto povero»?) mentre il messicano Enrique Olvera usa la maionese di formiche (ma solo se sono della specie Chicatana, la più gustosa del suo Paese); Anne-Sophie Pic ci tiene a rendere la cucina francese meno elitaria («anche per questo ho chiesto di preparare il piatto più semplice: un uovo») e l’indiano Vineet Bhatia è molto arrabbiato per come vengono presentati i piatti del suo Paese. «La vera cucina indiana non è unta, non è grassa, non è sommersa di spezie e soprattutto non è troppo piccante». E per convincermi di quanto dice, mi fa assaggiare un manicaretto. Ultraspeziato e strapiccante... ma al punto giusto!