Sebastiano Caridi, “il più grande pasticcere”, al microscopio

Intervista-ritratto al concorrente che ha vinto il talent di Raidue

Sebastiano Caridi e i quattro giudici del talent
3 Dicembre 2015 alle 16:33

Si chiama Sebastiano Caridi, è nato a Reggio Calabria il 16 maggio del 1988, sposato, un figlio in arrivo, un diploma di specializzazione, da due anni fa lo chef nella storica pasticceria Fiorentini di Faenza e, soprattutto, da ieri sera è il «più grande pasticcere» d’Italia. Almeno stando all’omonimo talent di Raidue che l’ha proclamato dopo sei golosissime puntate, infarcite di sfide da leccarsi le dita, il più bravo fra 30 selezionatissimi pasticceri professionisti. Ma chi è e da dove arriva Sebastiano Caridi? Ecco tutto quello che avreste voluto chiedergli.

Contento della vittoria?
«Incredulo, fino al responso non sapevamo nulla, aspettare la finalissima di ieri è stato piuttosto pesante. Avevamo girato due video con due vittorie, la mia e quella di Lorenzo, ma il verdetto l’abbiamo saputo in diretta».

La tua passione per i dolci nasce nel laboratorio di famiglia.
«Sì', avevamo una pasticceria a Reggio Calabria, io sono figlio d’arte. Il “colpevole” è stato mia papà, Paolo Caridi, è lui che ha inaugurato la tradizione. Chissà se la tramanderò a mio figlio che nascerà a febbraio...».

Tuo papà cosa ti ha detto dopo la vittoria a «Il Più Grande Pasticcere»?
«Era felicissimo, non mi ha mai fatto tanti complimenti, ma ieri mi ha detto: “L’allievo supera il maestro!”, e poi si è offerto di farmi da assitente. Mi ha commosso».

La torta di famiglia qual è?
«Mio papà è un ambasciatore del bergamotto, un frutto della nostra terra poco conosciuto, ma ricco di valore, lui lo usa molto nei suoi dolci».

Da bambino avevi tutte le torte a disposizione?
«La fortuna di avere un papà pasticcere è che ho iniziato a stare in pasticceria per gioco, ho cominciato la gavetta con lui, pulire per terra, pulire le teglie, ho iniziato da zero, poi, sempre per gioco, ho fatto la crema, ho usato il sac à poche, e ho continuato».

Dicono che la pasticceria è come la matematica. Concordi?
«Per la pasticceria ho ripreso in mano i libri. A scuola non ero un grande studioso, però, quando ho cominciato a fare l’Accademia, ho capito che senza la calcolatrice non posso far nulla. In laboratorio pesiamo tutto prima di realizzare un dolce, ci mettiamo lì con carta, penna e calcolatrice».

A scuola qual era la tua materia preferita?
«Quando frequentavo la scuola alberghiera a Villa San Giovanni (RC) mi piaceva “Sala Bar”, ti insegna il rapporto con i clienti, come fare una buona presentanzione, serve a formare un buon personale di sala».

Il primo insegnamento di pasticceria che hai avuto?
«L’insegnamento più bello è stato di mio papà: “Non puoi nascere pasticcere, ma lo diventi facendo tantissimi sacrifici”».

Il primo corso di pasticceria?
«A 17 anni mi sono iscritto all’Accademia Cast Alimenti di Brescia per due anni e poi sono stato quattro anni a fianco di Stefano Laghi a Faenza facendo solo cioccolato. In questo tempo ho avuto modo di conoscere tanti maestri a livello nazionale e internazionale, mi si è aperto un mondo ignoto».

Alcuni dei giudici de «Il più grande pasticcere» sono stati tuoi maestri.
«In un campionato mondiale ho fatto da assistente a Roberto Rinaldini e lì anche sentir lavare le pentole o passare una pentola al maestro mi entusiasmava».

Cosa ti hanno insegnato  durante «Il Più Grande Pasticcere»?
«L’insegnamento umano è stato quello che mi è servito di più. Ho imparato a non tenere chiusi dentro di me i sentimenti, mi hanno insegnato a essere sicuro, confidente di potercela fare».

Come sei arrivato a «Il Più Grande Pasticcere»?
«Per me la tv era un mondo sconosciuto. La proposta di partecipare mi è arrivata tramite dei ragazzi che avevano gareggiato l’anno scorso, hanno fatto il mio nome e poi mi hanno chiamato dalla redazione del programma».

Hai accettato subito?
«All’inizio avevo un po’ timore di osare o mettermi in gioco, ma mia moglie Claudia mi ha spronato. È lei che a 17 anni mi ha spinto ad andare in Accademia».

Nella prima puntata eravate 30 candidati, poi siete scesi a 10: la selezione più difficile quando è avvenuta?
«Quando ho preso la giacca nera, avevo tantissima paura di non farcela: trenta persone che non si conoscono e che hanno lo stesso obbiettivo, non è facile spuntarla».

Come ci sei riuscito?
«Uscendo dagli schemi. Mi reputo un pasticcere innovativo e creativo, ma anche tradizionale. Non invento niente. Mi ispiro a qualcosa che è stato fatto e poi lo rendo mio. Come diceva Gaudì: “L’originalità consiste nel tornare alle origini”».

Un’Accademia televisiva di pasticceria a cosa serve?
«A mettere in pratica non tanto lo studio fatto a scuola, ma quello fatto in laboratorio: il vero pasticcere ha un orario e dei tempi da rispettare, a volte si lavora di corsa, se arriva un ordine all’ultimo momento non puoi rifiutarlo, ma devi inventarti qualcosa».

I programmi tv di cucina li guardi?
«Ho seguito “Il Più Grande Pasticecerie di Francia”, lì sono veramente dei grandi professionisti».

La torta "Rivelazione" con cui hai vinto la finale quando l’hai studiata?
«È stato l’insieme di tutto il mio percorso, ci ho messo la mandorla, il pistacchio, il cioccolato, fuori si presenta “impegnativa”, con fiamme di fuoco di cioccolato, ma all’interno ha una bontà di dolcezza. Ricalca un po’ quello che sono io: a volte mi hanno dato dello sbruffone o del maschilista, ma poi hanno visto che sono umile».

Gli ingredienti fondamentali di cui non fai mai a meno.
«La pasticceria si racchiude in 4 ingredienti: farina, burro, uova e zucchero. Io con questi realizzo tutto, da un biscotto a una crema».

La torta più impegnativa realizzata nella tua vita da pasticcere?
«La Rivelazione, propria lei!».

Che tipo di torte vorresti sperimentare?
«Il mio sogno sarebbe di far mangiare ai miei clienti il cioccolato tutto l’anno, in Italia c’è la cultura di accontonare d’estate il cioccolato. Invece nel cioccolato si racchiude amore, gioia, sorrisi... tutto».

Il tuo look così particolare quando l’hai studiato?
«Due anni fa sono diventato chef executive di un’azienda storica (Fiorentini di Faenza), ho in mano il laboratorio con nove dipendenti, così, per essere più credibile, mi sono fatto crescere la barba. I baffi sono stati un suggerimento di mia moglie, per creare un po’ il personaggio di Sebastiano».

Il look è importante per un pasticcere?
«Per me il pasticcere è come il dolce, prima si deve presentare bene e poi si deve conoscere all’interno. La postura, l’andatura, il modo di porsi, la pulizia, sono cose importanti ».

Perché un tatuaggio con una fava di cacao?
«Avevo 21 anni quando ho iniziato a capire che il cioccolato faceva parte di me».

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