Roberto Giacobbo: «Ho sconfitto il Covid-19 e sono tornato a vivere»

Il divulgatore scientifico ci racconta la dura battaglia contro il virus: «Avevo perso 15 chili, ma ora mi sento forte come un toro»

Roberto Giacobbo ha compiuto 59 anni il 12 ottobre: «Li ho festeggiati in Sardegna con la mia famiglia»  Credit: © Pigi Cipelli
16 Ottobre 2020 alle 08:56

La tv e il mondo della divulgazione hanno rischiato di perdere un personaggio amatissimo e insostituibile. Io, un amico a cui voglio molto bene. Per questo non è facile neppure per me parlare con Roberto Giacobbo di quello che gli è accaduto lo scorso marzo, quando per colpa del Covid è stato a un passo dalla morte. Perché è inutile girarci intorno: Roberto è vivo per miracolo.

Cosa è successo il 5 marzo?
«Una persona al supermercato mi ha contagiato. In quei giorni ero fermo a casa e lavoravo con i miei collaboratori: dato che nessuno di loro lo ha preso, andando per esclusione l’unica occasione è stata quella».

Scusa, ma cosa dovevi comprare?
«Delle uova (fa una pausa, ndr). Così sono sceso nel negozio sotto casa».

Proseguiamo con il racconto.
«Il 12 marzo è cominciata la febbre e il 19 la situazione è precipitata: facevo fatica a respirare, i sintomi si sono confusi perché avevo la faringite e la tosse grassa, mentre il Covid provoca tosse secca. Il malessere che provavo credevo dipendesse dal fatto di aver preso troppa tachipirina. Ma non era così. Grazie al pulsossimetro (il dispositivo che misura la saturazione di ossigeno nel sangue, ndr), che avevo acquistato dopo aver visto una signora parlarne in tv, ho capito che i valori stavano crollando. In due ore la saturazione è passata da 96 a 91. A quel punto ho chiamato un amico cardiologo del Gemelli che mi ha detto di correre subito in ospedale. Ho cercato un’ambulanza ma non ce n’erano, così mi sono messo in auto con mia figlia Angelica. Irene, mia moglie, stava già male anche lei (si sono ammalate anche le loro tre figlie, ma meno gravemente, ndr). Sono arrivato nel reparto Covid, ho fatto il tampone e due ore dopo ero in rianimazione. Mi hanno detto che se fossi rimasto a casa non avrei superato la notte».

Qual è stato il momento in cui hai avuto più paura?
«Quando ho perso i sensi in rianimazione. Ho visto la stanza girare, stavo per svenire e non ero più padrone di me stesso. Ho chiuso gli occhi e non ho capito se c’ero più. Quando li ho riaperti, pensavo fosse passato un minuto, invece erano trascorse 24 ore».

Ma hai saputo reagire, sia dal punto di vista fisico che mentale.
«Ho una buona fibra per natura, è vero. Grazie anche al fatto che faccio immersioni non mi sono spaventato quando avevo da gestire poca aria. Dopo otto giorni in rianimazione e aver perso i sensi tre giorni prima, appena mi hanno messo la maschera per l’ossigeno al posto del casco ho iniziato a fare fisioterapia polmonare. La facevo ogni ora. Così ho allargato subito i polmoni. Ho una capacità polmonare di 6,3 litri. Normalmente è tra i 3 e i 5».

C’è qualcosa che ti fa piacere ricordare di quei giorni in ospedale?
«Le persone che erano lì e ci curavano con una disponibilità e dedizione uniche, dal primario alle infermiere, dai dottori alle caposala. Una di loro, Sabrina (l’infermiera che mi stava più vicina), quando sono andato via mi ha lasciato il suo numero perché volevo avere notizie del mio compagno di stanza, che purtroppo non ce l’ha fatta. La cosa incredibile è che una volta dimesso le ho mandato un pezzetto di “Freedom” e solo in quel momento ha capito chi fossi. In ospedale non mi aveva riconosciuto. Per lei ero solamente Roberto del letto 2 che doveva stare bene e sopravvivere».

Quanto sei stato ricoverato?
«Dal 19 marzo al 1° maggio, 42 giorni. Dopo la rianimazione sono stato in degenza subintensiva e poi in una degenza esterna. Qui, dopo il secondo tampone negativo, è venuto un medico che mi ha dimesso, anche se era un venerdì festivo. Ricordo la gioia durante quella settimana, quando le mie figlie venivano in auto sotto il mio balcone e io mi affacciavo per salutarle».

Il giorno che ti hanno dimesso come l’hai vissuto?
«Angelica è venuta a prendermi da sola, Irene era negativizzata ma ancora in convalescenza. Siamo arrivati a casa e non c’era Margherita, ancora positiva, perché stava nello stesso palazzo ma in un altro appartamento. È stato quindi un rientro dove non ho potuto esprimere appieno la mia gioia perché mancava una delle mie figlie, con la quale potevamo guardarci soltanto affacciandoci dalle finestre. Non abbiamo potuto festeggiare la Pasqua quest’anno: allora abbiamo tenuto da parte tutte le uova e a metà maggio, quando tutti e cinque ci siamo negativizzati, abbiamo fatto colazione insieme e ci siamo scambiati gli auguri di Pasqua. Quella è stata la nostra rinascita».

Il primo giorno in cui sei tornato a lavorare, invece, com’è stato?
«Era il 20 maggio e dovevamo fare dei lanci in studio a Roma. Ho videochiamato il primario di rianimazione, Antonelli, e gli ho mostrato la squadra di “Freedom” attorno a me mentre io ero seduto a fare i lanci. Ci siamo commossi tutti. Stavamo ricominciando a vivere. Erano passati solo 20 giorni dalle dimissioni, ero dimagrito 15 chili, ma mi sentivo un toro pronto a combattere».

Questa vicenda ti ha cambiato?
«Ora è tutto più bello: il sole, il mare, il volto di chi amo. Sento la vita in modo più intenso. È come se fossi passato dal bianco e nero a vedere a colori e in alta definizione».

Il 12 ottobre hai compiuto 59 anni. Come li hai festeggiati?
«A Carloforte, in Sardegna, con le mie donne. Non c’è niente di più bello e speciale che stare insieme».

Hai un’ultima raccomandazione da fare a tutti noi?
«Il virus è così pericoloso eppure basta così poco per schivarlo: non abbracciarsi, usare la mascherina, non toccarsi gli occhi e lavarsi spesso le mani. È sciocco non farlo, usate il buonsenso».

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