Accorsi e Ligabue: «La nostra amicizia è evidente anche qui»

L’attore e il cantautore “duettano” in un progetto speciale. E non è detto che sia l’ultimo...

Stefano Accorsi e Luciano Ligabue
18 Novembre 2021 alle 10:48

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Ligabue racconta Ligabue: 30 anni di vita e di sogni di rock’n’roll trasformati in realtà sul palcoscenico, sul set, in libreria, ovunque, e “arginati” in poco più di cinque ore in “Ligabue - È andata così”, docuserie in sette capitoli da tre episodi ciascuno che RaiPlay ha iniziato a proporre in streaming dal 12 ottobre con i primi tre capitoli. Dal 18 novembre, invece, sono disponibili gli ultimi quattro con ospiti Pierfrancesco Favino, Elisa, Jovanotti, Piero
Pelù, Fiorella Mannoia, Francesco Guccini, Kasia Smutniak, Marino Bartoletti, Gino&Michele, Massimo Recalcati, Domenico Procacci, Laura Paolucci, Mauro Coruzzi, Fabrizia Sacchi, Stefano Pesce, Luciano Federico, Claudio Maioli e Marco Ligabue.

Musica, persone, luoghi, emozioni si impastano in una lunga ballata che Ligabue conduce a due voci. Con lui, infatti, c’è Stefano Accorsi, vero amico, vecchio complice. Sorrisi li ha fatti incontrare per discutere di questa e di altre possibili avventure.

Ligabue, perché ha scelto Accorsi?
«Quando è arrivata la proposta di RaiPlay ero un po’ spaventato: è difficile trovare il modo giusto per fare un racconto così lungo. Poi è arrivata l’ipotesi di coinvolgere Stefano, e le cose si sono chiarite: sapevo che avremmo trovato una chiave non pesante, ma, se possibile, anche scherzosa, con qualche gag qui e là. Le gag che vedete nella serie (oh, la chiamano così!) spesso sono improvvisate, frutto del fatto che sento in Stefano un complice. Tra noi c'è una certa “naturalezza”, che abbiamo trovato in modo particolare lavorando al film “Made in Italy”, quando abbiamo avuto modo di conoscerci davvero dopo tutta un'esperienza di vita… Il primo film che abbiamo girato insieme, “Radiofreccia”, è stato una roba troppo veloce, io ero troppo fuori di testa».

Accorsi, perché ha detto di sì a Ligabue?
«Io parto dal presupposto che quando Luciano lavora a un progetto non lo fa mai tanto per fare: c’è sempre un pensiero dietro, c’è un’originalità. Ci sono artisti che non lavorano sulla forma: fai il concerto? Bene, sei contento di cantare le tue canzoni e finisce lì. Lavorare con Luciano, invece, è stimolante perché è uno sperimentatore e si vede nelle canzoni, nei libri, nei film. E poi scrive in una “lingua” che capisco profondamente, vuoi per le nostre comuni radici emiliane, vuoi per un’affinità nelle sensibilità».

Cosa pensavate l’uno dell’altro quando nel 1998 vi conosceste sul set di “Radiofreccia”?
Ligabue: «Mi tocca un po' di spoilerare… Nel capitolo “Facci un po’ vedere”, ognuno dei tre episodi è dedicato a un mio film. Il primo parla appunto di “Radiofreccia”, e ci siamo trovati io, lui e Luciano Federico, che era Bruno, il coprotagonista, quello che apriva e chiudeva la radio privata. Allora ci siamo un po' confessati i turbamenti degli inizi, ed è venuto fuori che Stefano aveva delle sacrosantissime perplessità. Diceva: “Vabbe’, il provino vado a farlo, ma questo è un cantante, non un regista”. D’altro canto, io avevo visto quanto era bravo nel suo primo film con Pupi Avati, “Fratelli e sorelle”, ma sapevo come doveva essere il personaggio di Freccia e lui in quel momento era molto famoso per una pubblicità di gelati, così pensavo: “Sì, è bravo, ma lo spettatore non si commuoverà alla morte di Freccia se gli viene in mente la battuta della pubblicità”. Quindi avevo pensato di fargli fare un altro personaggio… Poi l’ho sentito leggere l’elenco dei “credo” di Freccia, che è poi la parte più “popolare” del film, e ho detto “È lui!”».
Accorsi: «Il primo giorno, a Correggio, c’erano già quasi tutti gli attori che avrebbero poi fatto il film. Luciano ci fece soprattutto giocare a bigliardino, chiacchierare, ridere, scherzare. Quello era il momento in cui era “esplosa” completamente la sua notorietà e io sentivo che aveva una sorta di diffidenza nei confronti di tutti, noi compresi. Non era un amicone, insomma, e io ero un po’ in soggezione. Qualche giorno dopo, mi proposero un ruolo diverso da Freccia e dissi alla mia agente che volevo almeno provarlo, così arrivò quella lettura. Sul set, poi, c'è stata una scena che mi ha colpito profondamente: era un litigio tra Freccia e il suo patrigno, con lui che si metteva tra il ragazzo, cioè me, e il televisore. Dal modo in cui Luciano diresse la scena, ho capito quanto guardava all'interiorità del personaggio. In questo mestiere devi sempre stare attento a non cadere nello stereotipo: una litigata? Perfetto: metti due persone che urlano. Lui invece mi suggerì di fare un leggero movimento di spalla per poter continuare a vedere la tv, una “spallatina”… Lì ho capito che guardava all'interiorità, che cercava una fisicità non “dimostrativa”. Per me è stato fondamentale che il regista fosse Luciano, perché mi sono nutrito molto di questa fisicità che c'è nel film e che ho ritrovato in lui».

Luciano, lei è un personaggio poliedrico: musica, libri, cinema, questa docu-serie che cinema non è… Come riconosce la direzione che deve prendere una sua nuova idea?
«È sempre venuta fuori da sé. A parte l'esperienza di “Radiofreccia”, in cui sono stato portato a fare il regista dagli eventi. A un certo punto il produttore mi ha detto: “Vabbe', di questo film conosci tutto tu, la sceneggiatura l'hai scritta tu con un altro, verrà girato a Correggio e conosci tutti gli accenti e le sfumature… Nessuno conosce questa storia meglio di te, quindi, anche se non hai mai fatto il regista, dovresti farlo tu”. Lì mi sono tormentato per un paio di mesi: hai 36/37 anni, sei in un momento importante della carriera, e corri il rischio enorme di lanciarti in una sfida del genere quando non sei mai stato su un set, se non dalla parte “di qua” delle telecamere nei videoclip?… D'altro canto, però, sapevo che per il resto della vita mi sarei detto: “Vabbe', ma quella volta là quel film lì dovevi farlo”. Allora, per evitare quel rimpianto, mi sono lanciato ed è stata la cosa che mi ha fatto venire i primi capelli bianchi. Dopo quell'esperienza, però, mi sono sempre reso conto del fatto che ogni urgenza creativa che avevo prendeva immediatamente una sua forma. È chiaro che le canzoni sono lo “strumento” con cui torno sempre a casa. Le canzoni sono potenti, ma hanno dei limiti: le parole devono “suonare”, devono stare in una metrica, qui e là magari devono avere anche una rima… E così sei costretto a fare una roba di sintesi, usare parole che evocano invece di raccontare. Quando scrivi un racconto o un romanzo, invece, sei nella massima libertà possibile: puoi mettere su carta qualsiasi fantasia, non hai limiti di spazio e tempo, e quindi è la situazione ideale… Anche nei libri, però, a parte il romanzo “La neve se ne frega” (2004), ho parlato sempre di quello che conosco. Anche quando scrivi una sceneggiatura hai una libertà importante nell'uso del tempo, perché hai almeno un'ora e mezzo per raccontare la tua storia, però devi stare in una griglia che ha a che fare con tempi che vanno previsti, con azioni che vanno pensate e con situazioni che devono fare i conti con un budget… Oh, io nel primo film ci ho messo anche un ippopotamo, ma, quando è stata ora di “girarlo”, soltanto io e Stefano sappiamo che cos'ha voluto dire. Anzi, lo sa soprattutto Stefano».

E che cosa ha voluto dire?
Ligabue: «Intanto sono impazziti per fare arrivare un ippopotamo in questa casa di Correggio che aveva un bellissimo parco. Poi hanno dovuto portare anche un rinoceronte, perché i due animali erano inseparabili, quindi nel parco si sono ritrovati la gabbia col rinoceronte e la gabbia con l'ippopotamo, che una notte l'ha pure sfondata e s'è messo a girare… E non è che all'ippopotamo gli dici: “Senti, per favore, ti sposti?”… Quando abbiamo girato, abbiamo fatto l'unica cosa possibile: mettere due camere fisse e, ovviamente, lontane da lui. A quel punto eravamo lì con gli addestratori e al resto ci ha pensato quell'incosciente di Stefano, che ha provato addirittura a spostarlo a braccia… Non gliel'ho mica chiesto io! Io avevo la strizza in quel momento! Però è un esempio di come Stefano volesse dare tutto nel film, anche se rischiava la cotenna con l'ippopotamo».
Accorsi: «È vero che la pericolosità dell'ippopotamo è molto sottovalutata, nel senso che uno lo vede e dice “Che carino!”, ma poi viene a sapere che in Africa è la prima causa di morte per attacco d'animale, perché è sottovalutato, e invece può essere molto veloce e ha una forza brutale… Io mi sentivo, come dire, “confident”, fiducioso, e lui mi sembrava abbastanza tranquillo, quindi ho pensato: “Adesso lo spingo e lo sposto”. Era come spingere una casa, non credo che se ne sia nemmeno accorto».
Ligabue: «E io direi meno male! Meno male che non se n'è accorto!».
Accorsi: «Sì, forse sì».

Ligabue, quale canzone regalerebbe ad Accorsi?
«E spoileriamo ancora! Nella serie lui ha una posizione “neutra”: allo spettatore non deve segnalare nulla rispetto ai suoi gusti. Però quando è partita “A modo tuo” gli è scappata un’emozione e mi è rimasta impresso, e allora per questo gli regalo quella canzone. Stefano, è lì: la puoi prendere».

Accorsi, quale film regalerebbe a Ligabue?
Accorsi: «Quando Luciano parla dell’Emilia, la sua, la nostra terra, non racconta mai solo il suo stereotipo, ma anche le sue ombre, e allora gli regalerei “Novecento” di Bernardo Bertolucci, che racconta l’Emilia attraversando una parte scurissima del secolo scorso. Ti fa vedere come le persone che interagivano in quel momento fossero sempre quelle che, fino a qualche prima, avevano saputo “convivere”. Insomma, viene fuori una complessità che m’impressiona: ecco, Luciano prende sempre in considerazione la complessità».
Ligabue: «Sappi, allora, che volevo presentare un album proprio nella corte dove hanno girato “Novecento” (la Corte degli Angeli a Roncole Verdi, in provincia di Parma, ndr)! Facendo un sopralluogo ho scoperto che la gestiva uno che da ragazzino aveva fatto la comparsa nel film, e mi raccontò che le rondini che ci stavano volando intorno in quel momento erano le nipoti o le pronipoti (non so bene come funzionino le generazioni…) di quelle che si vedono in “Novecento”. Le rondini, sai, sono abitudinarie e quindi questo aspetto del film è rimasto intatto».

Cinque ore di docu-serie: Ligabue, qualcosa è rimasto fuori?
«Hai voglia che ne trovo di cose! Ma se me ne chiede una, mi mette in imbarazzo: è come far torto alle altre. Però mi è piaciuto occuparmi di un fatto che non avevo mai considerato: soffermarmi sulle crisi “professionali”. Poi ho voluto smentire un aggettivo che mi hanno appiccicato fin dagli inizi: “riservato”. Ho letto bene il vocabolario e con me “riservato” non ci azzecca! C’è una puntata in cui andiamo proprio in profondità su lutti, separazioni, amicizie, gioie, nuove relazioni e nuovi amori, amori finiti… C’è una mancanza di pudore che non è da me, ma che sentivo necessaria per ripagare la fiducia di chi mi segue: ho deciso che dovevo raccontare il più possibile, anche i fatti miei più intimi. Ecco, in quella puntata facciamo cadere l’aggettivo “riservato”».

Mettiamo che il vostro “gruppo di lavoro” venga chiamato a fare una docu-serie come questa su un qualunque altro artista: chi vi piacerebbe raccontare?
Accorsi: «Porca miseria, non è facilissimo…».

Non c'è limite di budget! E, soprattutto, avete la garanzia che il prescelto accetterà…
Ligabue: «Se non c'è limite di budget, ti vien voglia di farlo con chi ha una storia piuttosto lunga, evidentemente… Ma bisognerebbe restringere il campo: un cantante, un artista… Anche un calciatore… Ecco, sul calcio in modo particolare Stefano può dire la sua…».
Accorsi: «Certo! (ride) Però siccome non vorrei contrariare il mio pubblico di tifosi, preferisco non esprimermi sul tema… Io e il calcio proprio non… Ma sa che non è facile rispondere? Però, però… Ce l'ho! Potremmo fare Clint Eastwood, e lui sì che è “riservato”! A un certo punto è uscito un documentario su di lui, prodotto da lui, e non dicevano niente! Vede, è vero che di Luciano dicono che sia “riservato”, ma a me ha sempre colpito il fatto che, parlandogli, ti dice senza “pudore” sia tutte le cose belle che gli sono successe, sia anche quelle che non sono andate. Questa è una forza, perché si ha sempre paura di mostrare i momenti difficili, le fragilità, soprattutto quando uno ha una storia di grande successo. Lui invece ne parla in modo sincero, analitico, non autocommiserante, oggettivo. Clint secondo me si è raccontato troppo poco: lo ha fatto tantissimo solo attraverso i suoi film. Mi affascina molto una sua parte di sensibilità e raffinatezza che ha anche nello sguardo, e che non coincide con quella sua immagine da duro con gli occhi di ghiaccio che continuiamo a vedere anche nelle sue foto a 90 anni. Del resto è questo che gli chiedono, come a Robert De Niro chiedono di ripetere “Ma dici a me?”, la battuta di “Taxi driver”. E invece Eastwood ha una sensibilità molto delicata, a tratti quasi femminile: ha fatto ritratti di personaggi femminili stupendi! Ricordo un aneddoto sul film “I ponti di Madison County”. Meryl Streep gli parla, lui comincia a piangere e si gira coprendosi il volto; così lei gli dice: “Scusa, se stai piangendo, piangi davanti alla macchina da presa, ti prego”, e lui: “No, perché gran parte del mio pubblico non accetta che io pianga”… Ecco, secondo me Eastwood ha questo tipo di pudore, e a me piacerebbe raccontarlo perché lui è uno di quei modelli incredibili».
Ligabue: «E allora dai, partiamo! Andiamo da lui e facciamolo. Sarà facile per noi cazzeggiare come abbiamo cazzeggiato a questo giro, sarà facilissimo…».
Accorsi: «Facilissimo!».
Ligabue: «Però lo faremo anche piangere. Per la disperazione».

Avete mai pensato di fare un tour insieme, fatto di musica e letture?
Ligabue: «Sono 15 anni che ci proviamo, ma ce lo impediscono sempre».
Accorsi: «Ci remano contro!».
Ligabue: «C’è proprio un complotto di tutti i teatri. Appena lo proponiamo, ci dicono: “Scusate, ma qua non si può”. Non abbiamo ancora trovato un teatro che ci accolga. A parte gli scherzi, mai dire mai! Lo dico da appassionato di James Bond: ho fatto anche una canzone con quel titolo lì, “Mai dire mai”».
Accorsi: «È chiaro che ci vuole “il” progetto e non “un” progetto, però mi piacerebbe molto… Io sono pronto!».

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