Tutti parlano della serie creata in Corea del Sud e diventata la più vista di sempre su Netflix

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Se non l’avete ancora vista, vi sarà capitato di sentirne parlare: “Squid game” è la serie sudcoreana che ha battuto ogni record. Con 132 milioni di spettatori in tutto il mondo nei primi 25 giorni di messa in onda, è la più vista di sempre su Netflix e ha stracciato “Bridgerton”, “La casa di carta”, “Lupin”... Costata 21,4 milioni di dollari, genererà, secondo quanto calcolato dalla stessa Netflix, 900 milioni di ricavi. Un ritorno tale che si pensa già di girare la seconda stagione.
Gli ingredienti che hanno reso così popolare questa serie sono gli stessi che hanno decretato il successo del fenomeno detto “hallyu”, ovvero “l’onda coreana” di cui altri esempi sono il film “Parasite”, pluripremiato agli Oscar 2020, e il k-pop: il genere musicale della boyband dei BTS (acronimo che sta per “Bangtan Sonyeondan”, cioè “boyscout a prova di proiettile”). Cos’hanno in comune “Parasite” e “Squid game”? Il realismo, a volte crudo, e una forte satira sociale. E con i BTS? I colori accesi: nel caso della band nei look, nel caso della serie nelle scenografie e nella fotografia.
La trama avvincente
La storia, in nove episodi, è incentrata su un gruppo di persone con gravi problemi di soldi. Sono disposti a tutto pur di migliorare la propria condizione economica e accettano di essere ingaggiati in un torneo a eliminazione basato su giochi d’infanzia come le biglie o il tiro alla fune: a manovrarlo è un club di super ricchi. In palio ci sono 45,6 miliardi di won (la moneta nazionale sudcoreana pari a quasi 33 milioni di euro), una ricchezza inaudita che scatenerà meccanismi psicologici perversi, trasformando la competizione in un incubo. Lo “squid game” del titolo è il gioco del calamaro (“squid” in inglese), diffuso in Corea negli Anni 70 e 80. Il nome si deve al perimetro del campo in cui si disputa la partita (a forma di calamaro, appunto). Lo scopo è raggiungere la “casa-base” saltellando su una gamba sola, cercando di non farsi buttare a terra dall’avversario che cerca di frenare la corsa verso la meta.
I protagonisti
Diversi attori del cast hanno raggiunto una fama planetaria. Iniziamo da Jung Ho-yeon, la splendida modella che interpreta la profuga nordcoreana Kang Sae-byeok (la giocatrice con la maglia numero 067). La ragazza partecipa al torneo per comprare una casa al fratellino in orfanotrofio. “Squid game” è il suo primo ruolo da attrice. Oggi è la nuova testimonial mondiale di Louis Vuitton e la sua visibilità sui social è schizzata alle stelle: su Instagram i suoi follower sono passati da 400 mila agli attuali 21,6 milioni. Invece Park Hae-soo nella serie è Cho Sang-woo, un investitore ricercato per truffa (numero 218). Diventato da poco papà di un bimbo soprannominato subito “Squid baby”, interpreterà Berlino nel remake coreano di “La casa di carta” ed è molto amico del collega Lee Jung-jae, il protagonista Seong Gi-hun, un giocatore d’azzardo che vive con la madre, divorziato e pieno di debiti (numero 456). Lui ha già recitato in film importanti come “The housemaid”. Il suo primo successo è stato “Si-wor-ae”, ovvero “Il mare”, nome che l’attore ha dato al ristorante italiano che ha aperto a Seul.
I significati segreti
Sono tante le immagini che in “Squid game” catturano l’attenzione. Come le scale “labirintiche” che provocano straniamento nei giocatori. Si ispirano al quadro “Relatività” di Maurits Cornelis Escher e a un posto reale: “La Muralla roja”, residence di 50 appartamenti nella Spagna meridionale, a Manzanera, a circa 100 chilometri da Valencia, progettato nel 1968 dall’architetto Ricardo Bofill. Esiste davvero pure il numero di telefono che compare nel biglietto da visita del reclutatore di giocatori. Anche se la produzione aveva omesso il prefisso, funziona. E i fan della serie hanno tempestato di chiamate il possessore (pare sia la proprietaria di un negozio di dolci, che non può cambiarlo perché teme di perdere i clienti). Sul biglietto osserviamo tre simboli: gli stessi che si vedono nelle maschere delle guardie in tuta rossa che sorvegliano i giocatori. «Il cerchio rappresenta i lavoratori, il triangolo l’esercito e il quadrato i dirigenti» ha spiegato il regista e creatore Hwang Dong-hyuk. Ma queste forme geometriche nell’alfabeto coreano hangeul significano “o”, “j” e “m”, sigla di “ojingeo geim”, ovvero “gioco del calamaro” in lingua coreana. Un’altra chicca per i fan si trova nell’angosciante colonna sonora (firmata dal compositore Jung Jae-il, lo stesso di “Parasite”). Sapete perché si sente “Sul bel Danubio blu” di Johann Strauss (figlio)? Perché c’è pure in “Battle Royale”, il film giapponese campione d’incassi che, in versione a fumetti, ha ispirato al regista la scrittura della serie: un lungo lavoro di gestazione durato 13 anni.
Giochi inquietanti
Fra le sfide di “Squid game” c’è una versione spietata di “Un due tre stella” (non spoileriamo il perché, ma fa orrore!). Qui entra in scena una bambola gigante con le sembianze di Younghee, la bimba di un’illustrazione presente sui libri scolastici coreani degli Anni 70 e 80. Volta le spalle ai giocatori e intona la canzoncina macabra “Mugunghwa kkochi piotsseumnida”, che tradotta vuol dire “Il fiore d’ibisco è sbocciato”. Cosa c’entra questo fiore? In Corea del Sud è l’emblema nazionale e identifica l’immortalità e la forza.
Ci sarà un sequel?
Il secondo capitolo della serie, mentre scriviamo, non è stato ancora confermato. Ma il regista ha già le idee chiare: «Se si farà, il protagonista Gi-hun dovrà estirpare alla radice il male del gioco che corrode tutta la società».