Arriva su Sky la serie diretta dal regista e ispirata all’omonima pellicola

Dopo le ripetute esperienze americane, nel 2017 Gabriele Muccino decise di tornare a girare un film interamente in Italia. Un film corale come piace a lui, con tanti attori, una famiglia numerosa, rapporti complicati, destini incrociati, dialoghi fitti, concitati. S’intitolava “A casa tutti bene”, uscì nel 2018, e aveva un cast di gran richiamo. La storia si sviluppava in poco più di cento minuti.
Ma a Muccino restò forse lo scrupolo, senz’altro la voglia, che si potesse dire di più, aggiungere altri dettagli, dare un passato e un futuro a quei personaggi. Così è nata la serie che porta lo stesso titolo del film, “A casa tutti bene”, otto episodi (due a settimana) in onda dal 20 dicembre su Sky e in streaming su Now.
Gabriele Muccino, alla fine anche lei si è messo a dirigere una serie tv.
«La serie è l’equivalente di quattro film riuniti in uno, solamente divisi in otto episodi. Volevo fare un lunghissimo film per raccontare diversi aspetti della famiglia che non avevo mai affrontato, e anche generi diversi come il “crime”. Mi interessavano le dinamiche e le relazioni umane, i sentimenti primari, dall’avidità alla sopraffazione, dalla violenza al possesso, oltre al conflitto sociale tra ricchi e poveri».
Come mai torna sempre ai drammi in famiglia?
«I personaggi del film originale erano profondamente miei, c’era tutto quello che la famiglia aveva lasciato di compiuto e incompiuto nella mia esistenza, una esplorazione con un tratto di nichilismo. Nel film i personaggi, intrappolati su un’isola in una situazione di claustrofobia e di convivenza forzata, tiravano fuori il peggio di se stessi, le maschere dopo un po’ cadevano e venivano fuori i rancori mai sopiti».
Ora invece il luogo dove tutto accade è un ristorante.
«Di questo ristorante si parlava già nel film ed era già identificato come un simbolo di potere, ricchezza, benessere, anche di arroganza nel modo di chi lo gestiva, rispetto al ramo più povero della famiglia che non aveva avuto la fortuna di avere quell’agio. Serviva un punto di aggregazione che sostituisse l’isola».
È vero che ha portato il cast ad “addestrarsi” in un ristorante a Roma?
«Serviva per fargli capire come sia la testa di chi gestisce un ristorante, di chi cucina e di chi serve. È un lavoro febbrile fatto di passione, amore e dedizione. Chi ci lavora ha un attaccamento al ristorante quasi carnale, è una parte di se stesso. Se nella serie ci sono 18 protagonisti, il ristorante “San Pietro” è il 19°: è lì che tutto nasce e si muove».
Come ha scelto i suoi attori?
«La sfida più grande era quella di trovare attori che avessero un atteggiamento verso la vita simile agli attori del film. Molti non li conoscevo, ma hanno uno straordinario talento, ne sono molto fiero».
Sono tutte figure più o meno infelici.
«Sono sconfitti che vogliono essere felici, che non hanno saputo gestire bene le proprie scelte. Carlo (Francesco Scianna), il fratello maggiore, ha un complesso di inferiorità verso il padre che non gli ha mai permesso di sentirsi indipendente, ma quando il padre muore si sente ancora più orfano. Paolo (Simone Liberati) è il fratello che ha trovato la forza di fuggire dal meccanismo logorante della famiglia, ma non fino in fondo. Sara (Silvia D’Amico), la figlia minore, è infelice perché tradita dal marito. Riccardino (Alessio Moneta), il cugino, è la pecora nera della famiglia, la prima pedina a cadere e, una volta caduto, innesca l’effetto domino inesorabile sul resto della famiglia»
Lei per quale dei tanti personaggi prova più empatia?
«Per molti di loro. Per Carlo, per Paolo, mi riconosco anche in Sara, nella sua disperata necessità di tenere la famiglia incollata quando le cose vengono a crollare. Ma anche nella paura della mediocrità di Riccardino: quando ero adolescente avevo paura di essere mediocre e ho fatto di tutto per dimostrare a me stesso che nella vita non lo sarei stato».
Doveva dirigere solo i primi due episodi, poi però li ha diretti tutti.
«E con ogni probabilità farò anche la prossima stagione. Sono talmente legato a questa serie. Ci ho messo un anno di lavoro a pieno ritmo tra scrittura, casting, preparazione. Ci vorrà un altro anno per la seconda stagione e poi la lascerò andare. E, possibilmente, tornerò a fare film per il cinema».