Una docuserie e un libro per farci scoprire e rivivere cosa successe davvero nei loro ultimi giorni insieme
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Stiamo per assistere a un esperimento epocale: verificare se per cinquant’anni abbiamo frainteso una delle più drammatiche pagine della storia del rock, ovvero la disintegrazione dei Beatles durante le registrazioni da cui nacquero gli ultimi album “Abbey Road” e “Let it be”.
Il 25, 26 e 27 novembre Disney+ propone in esclusiva “The Beatles - Get back”, mini-serie di circa sei ore (in tre parti) con cui Peter Jackson, il regista della saga di “Il signore degli anelli”, ripercorre quel mitico gennaio del 1969 che culminò nell’ultimo concerto dei Beatles sul tetto della Apple, la loro casa di produzione, e fu, si dice, l’inizio della fine. Jackson ha recuperato quanto fu girato e registrato all’epoca (circa 60 ore di filmati e 120 di registrazioni audio) per realizzare il film “Let it be”, uscito nel 1970 e lungo solo 80 minuti. La scoperta è che quei giorni furono non solo tristi, ma anche un’esplosione di creatività perfino giocosa, fanciullesca.
“The Beatles - Get back” è però disponibile in libreria già dal 12 ottobre, sotto forma di un volume edito da Mondadori (240 pagine, 39 €) con le 120 ore di registrazioni audio tradotte in italiano e un enorme corredo di foto. Sono poi disponibili diverse nuove edizioni dell’album “Let it be”, ripulite e arricchite di inediti. È però grazie al libro che possiamo essere subito “ospiti” dei Beatles, condividendo il loro processo creativo e seguendo le loro discussioni, screzi e scherzi compresi.
Fra i mille argomenti, ce n’è uno che colpisce in modo particolare, perché mostra come nel gruppo coesistessero la voglia di andare avanti e la consapevolezza di essere in un momento critico. I ragazzi parlano del tastierista texano Billy Preston che suonerà con loro e George dice: «Billy è sbalordito, è elettrizzato all’idea di farlo. E poi, sapete, la considera una grande opportunità…». John commenta: «Secondo me lo è anche per noi» e aggiunge: «Sì, come un quinto Beatle». George: «Potremmo anche farlo entrare nei Beatles». John: «Mi piacerebbe un quinto Beatle». Paul sorride, ma frena: «A me no. Perché è già abbastanza dura con quattro… Lui mi piace. È un musicista incredibile…». A Billy rimarrà un onore unico: la firma sul 45 giri “Get back”/“Don’t let me down”, attribuito a The Beatles with Billy Preston.
A noi rimane il fatto che la storia dei “quinti Beatles” sia una delle più affascinanti tra le mille legate al complesso. Oltre a Billy, infatti, vengono in mente almeno altri nove “quinti Beatles”. Il primo è Brian Epstein, il manager che plasmò e lanciò il gruppo. Poi c’è l’eterno produttore George Martin. E ancora; il bassista Stuart Sutcliffe, che abbandonò nel 1961, quando i Beatles erano proprio cinque, per darsi alla pittura; il batterista Jimmie Nicol che sostituì Ringo per otto concerti nel 1964; Yoko Ono, che diceva la sua su tutto; Eric Clapton, che in “While my guitar gently weeps” eseguì uno degli assoli più belli della storia del rock (e nel documentario scopriamo che John e Paul lo vedevano bene al posto di George); Phil Spector, il produttore che confezionò “Let it be”, ma scontentò tanto i Beatles da far riproporre l’album nel 2003 come “Let it be… Naked”, denudato dagli orpelli musicali di Spector; il guru Maharishi Mahesh Yogi, che nel 1968 ospitò i Beatles nella sua comunità in India in un soggiorno di meditazione che stimolò la composizione di una trentina di canzoni (“Ob-la-di Ob-la-da”, per esempio). Ultimo, e forse il più strano, è Alexis Mardas, un ingegnere greco che visse con i Beatles dal 1965 al 1969, inventandosi diavolerie tecnologiche che fecero perdere alla Apple una valanga di denaro. Nel documentario di Jackson sentiamo i Beatles parlare bene di lui: non avevano ancora fatto i conti.