“Una squadra”, Adriano Panatta: «…e così abbiamo fatto la storia del tennis»

Il trionfo contro il Cile in Coppa Davis nel 1976, la forza che li teneva uniti: «Eravamo dei ragazzi cresciuti insieme. E fortissimi!»

14 Maggio 2022 alle 08:37

È una di quelle emozioni sportive che sono entrate nella Storia del nostro Paese: il 18 dicembre 1976 l’Italia conquista a Santiago del Cile la sua prima, e finora unica, Coppa Davis. In una tv ancora in bianco e nero, dal Sudamerica rimbalzano in Italia le immagini di gioia dei tennisti che hanno fatto l’impresa. Adriano Panatta e Paolo Bertolucci, vincendo il doppio, hanno conquistato il punto decisivo: in Coppa Davis, allora, le Nazionali si sfidavano in cinque incontri, per conquistare la sfida bisognava vincernetre.

Con Adriano e Paolo, c’erano Corrado Barazzutti, Tonino Zugarelli e Nicola Pietrangeli, ex campione passato al ruolo di “capitano non giocatore”. Quel quartetto avrebbe portato l’Italia alla finale di Davis per quattro volte in cinque anni, segnando un’epoca e, di fatto, togliendo al tennis la sua “aura” di sport da club eleganti per renderlo finalmente popolare. La storia di quei “moschettieri” oggi viene raccontata in “Una squadra”, docuserie in sei puntate diretta da Domenico Procacci, grande produttore all’esordio come regista, in onda su Sky Documentaries dal 14 maggio e, on demand e in streaming, su Now. A bordocampo, per riflettere su quell’avventura, Sorrisi ha incontrato Adriano Panatta, il numero uno di quella formazione.

Panatta, è difficile vedere il tennis come uno sport di squadra...
«È vero, ma “Una squadra” è la storia di quattro ragazzi cresciuti insieme e insieme con un grande maestro come Mario Belardinelli (all’epoca responsabile tecnico della Nazionale, ndr), ragazzi che per molto tempo hanno unito i loro percorsi sportivi individuali a quello come team in Coppa Davis. Eravamo una squadra perché ci compensavamo: Barazzutti era straordinario sulla terra battuta, difficilmente perdeva col “numero 2” avversario e con il “numero 1” se la giocava sempre; Zugarelli era il classico giocatore sempre pronto quando veniva chiamato a giocare; io e Bertolucci in doppio abbiamo perso raramente, eravamo ben assortiti tecnicamente e umanamente... E io me la giocavo alla pari con tutti i “numero 1”».

La docuserie è costruita principalmente sulle vostre testimonianze. Chi è, tra voi, quello che ricorda tutto?
«Secondo me, Bertolucci e Barazzutti sono quelli che ricordano di più. Io e Zugarelli siamo romani, quindi un po’ più “disincantati”. La memoria, poi, non è la mia dote migliore: sa quante volte ho chiamato Paolo per chiedergli di rinfrescarmi questa o quella cosa? Lui dice che sono un po’ rimbambito: chissà se ha ragione».

La scelta di giocare la finale col Cile e in Cile scatenò polemiche: dal 1973 quel Paese era schiacciato da una dittatura militare e molti ne temevano una “celebrazione”...
«Eravamo consapevoli della situazione, ma ognuno la viveva con la sua sensibilità. A me le manifestazioni di protesta facevano molto pensare... Ma non ci confrontammo più di tanto: eravamo tutti decisi ad andare, e Pietrangeli, che ci rappresentava come capitano, si batté molto perché si capisse che era giusto farlo».

Giocaste il doppio decisivo in maglietta rossa: è vero che lo decise lei come “dichiarazione” politica?
«Non è che io sia partito da Roma pensando di usarla perché si giocava in Cile: ho sempre portato in valigia delle magliette rosse. Quando vidi la situazione a Santiago, però, mi venne l’idea e ne parlai con Bertolucci. Lui accettò, anche se non era mica tanto tranquillo. L’ultimo set, comunque, lo giocammo con le magliette azzurre: secondo me non avevamo il ricambio, ma Paolo ha detto che lo facemmo per vincere in azzurro, e può darsi che abbia ragione. Comunque, all’epoca delle magliette rosse non si accorse proprio nessuno: sono stato io, tantissimi anni dopo, a parlarne a una cena, convinto che di questa cosa non fregasse a nessuno; tra i commensali, però, c’era il regista Mimmo Calopresti che decise di farne un documentario (“La maglietta rossa” del 2009, ndr), e da lì sono rimaste un simbolo».

Eravate sicuri di battere il Cile?
«Sapevamo di essere più forti, ma era una trasferta difficile. Là abbiamo cercato di pensare solo allo sport, ma appena uscivi dall’albergo sentivi com’era tesa l’atmosfera. Io non leggevo una gran felicità negli occhi delle persone».

Dopo il 1976 avete giocato le finali del 1977, 1979 e 1980 perdendole contro Australia, Stati Uniti e Cecoslovacchia. Erano troppo forti o tra voi s’era rotto qualcosa?
«Intanto giocammo sempre all’estero, perché all’epoca un regolamento demenziale imponeva di scegliere per sorteggio il Paese dove disputare la finale, così fummo svantaggiati nella scelta della superficie su cui giocare: in Australia, per esempio, si giocò sull’erba. Nel tennis il “fattore campo” conta molto: se con gli Stati Uniti sarebbe stata difficile comunque, con le altre squadre ce la saremmo giocata. Con la Cecoslovacchia, poi, ci furono errori arbitrali clamorosi, tanto che dopo quella finale non si usarono più arbitri locali, ma neutrali».

Che cosa sarebbe successo se in Cile aveste perso?
«Non lo so... So che abbiamo vinto».

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