Una docuserie di Netflix racconta l’acceso scontro tra due professionisti dell’antimafia, ce ne parlano Ruggero Di Maggio e Davide Gambino
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Dal 24 settembre e in oltre 190 Paesi, su Netflix sarà disponibile “Vendetta: guerra nell’antimafia”, la docuserie in sei episodi prodotta da Nutopia in associazione con Mon Amour Films. Racconta e ricostruisce le vicende umane e processuali, ma anche l’acceso scontro personale, fra due figure di spicco dell’antimafia: da una parte Pino Maniaci, giornalista e conduttore che da più di vent’anni dalla sua emittente siciliana Telejato si batte per la lotta alla criminalità organizzata, dall’altra Silvana Saguto, per lungo tempo uno dei giudici più importanti e attivi nella lotta alla mafia da presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo.
Due percorsi di vita che si intrecciano nel 2013, quando Maniaci conduce alcune inchieste su episodi di corruzione a carico di rappresentanti della magistratura siciliana e riguardanti anche la sezione diretta dalla Saguto. Alla quale imputa di aver sequestrato indebitamente dei beni, addebitando compensi eccessivi per la loro amministrazione e di aver portato in rovina diverse imprese. Il giudice, dal canto suo, accusa il giornalista di favorire la mafia che critica su Telejato. Per capirne di più, abbiamo chiacchierato con Ruggero Di Maggio e Davide Gambino, fondatori della Mon Amour Films, ma soprattutto produttori esecutivi, scrittori e registi di questa appassionante docuserie che farà discutere.
Perché oggi una docuserie sulla vicenda Maniaci-Saguto?
Ruggero Di Maggio: «Perché è una realtà urgente. Come Mon Amour Films abbiamo sempre avuto interesse per le storie che portano i crismi della contraddizione. Pensiamo che nel dubbio, nel grigio, ci sia un interesse narrativo che si adatta benissimo alla forma del documentario. Perché la molteplicità dei punti di vista sia l’approccio ideale per raccontare storie che portano differenti opinioni da lasciare pubblico. E questa è stata la caratteristica principale di una storia che ci ha spinto a sceglierla. Un altro motivo? Sia Davide che io siamo siciliani, abbiamo vissuto la nostra giovinezza in Sicilia, e affrontare un tema come quello dell’antimafia che oggi è in discussione per noi ha un valore anche legato alle nostre biografie».
Davide Gambino: «Siamo entrambi cresciuti nella Palermo degli anni successivi alle stragi del ’92, assediata dall’esercito in cui i magistrati e i giornalisti erano protagonisti. A noi è venuto in qualche modo naturale osservare la… traiettoria del movimento antimafia. Però “Vendetta: guerra nell’antimafia” è una docuserie che ha un secondo livello di lettura, quello appunto che interroga sulla verità, sulla bugia, sulle zone grigie, e in questo crediamo ci sia una universalità della storia. Una storia locale che possa in qualche modo aprirsi a una piattaforma globale, a un palcoscenico globale proprio per le tematiche che affronta».
È voluta la distanza sociale che emerge fra il Maniaci e la Saguto?
Ruggero: «Nessuna volontà precisa, almeno a livello di regia, direi che sta nella realtà delle cose, nel senso che in questa vicenda si scontrano involontariamente due mondi. Maniaci entra in quello della Saguto, molto diverso dal suo, e lo fa a volte anche in maniera così scomposta, è lui in realtà a creare questa differenza, lui che vede uno scontro di tipo sociale, quasi di classe».
Davide: «Al di là della distanza sociale, io credo che la bipolarizzazione della docuserie, la presenza di questi due personaggi così diversi, offra la ricchezza narrativa per potersi muovere nello spettro multiforme del movimento antimafia, per quello che ha rappresentato e che rappresenta in Italia, per l’importanza che riveste nel nostro Paese. E quindi non è casuale che da un giornalista di provincia fino alle più alte sfere della magistratura palermitana ci sia la stessa passione e si rivesta un ruolo fondamentale all’interno del movimento antimafia. Quindi che ci sia questa bipolarizzazione è assolutamente naturale».
Quanto hanno aiutato le riprese in tempo reale per la docuserie?
Ruggero: «È stata una scelta fatta prima di iniziare a filmare. Abbiamo usato una tecnica che tende a seguire la realtà proprio mentre avviene. Ovviamente quella narrativa e direi anche di regia è di provare a prevedere ciò che avviene e a creare le condizioni per cui i personaggi, che in questo caso non sono tali ma persone che vivono la loro vita, possono trovarsi nel loro contesto per reagire narrativamente a quello che avviene. Questo ha poi anche un valore di puro intrattenimento, quasi spettacolare, perché in effetti eravamo lì nel momento in cui avveniva quella cosa. E questo secondo me è un punto molto forte».
Davide: «Noi non volevano fabbricare tesi o schierarci. E quindi pensiamo che “Vendetta: guerra nell’antimafia” racconti in maniera oggettiva osservando nel tempo in cui la vicenda si svolge. Ed era fondamentale per noi dare voce ai protagonisti nel momento in cui vivessero quelle esperienze, per cercare di restituire al meglio la loro veridicità, la loro autenticità. Quindi senza sensazionalismi abbiamo cercato di illuminare il realismo della vicenda».
Difficoltà o contrattempi durante la lavorazione?
Ruggero: «La prima grande difficoltà è stata seguire i processi che, peraltro, sono andati in maniera spedita nonostante il Covid che ha creato delle enormi complicazioni, organizzative per noi ma anche per i tribunali. L’altra grande difficoltà è stata mantenere la massina riservatezza essendo un tema appunto urgente che stava avvenendo in quei momenti in cui filmavamo. Noi abbiamo tenuto molto a mantenerci discreti, nell’interesse
dei personaggi coinvolti, nell’interesse della produzione stessa».
Davide: «Più che difficoltà parlerei di una sfida che credo abbiamo vinto, quella di raccontare una realtà e una storia comunque locale, circoscritta, anche molto tecnica, ma che è destinata a un pubblico internazionale. Quindi questa è stata non una vera e propria difficoltà ma una sfida, ha richiesto una grande attenzione lungo tutto l’arco produttivo».
La docuserie fa anche emergere una Sicilia ferita. Uno degli avvocati di Maniaci (Antonio Ingroia, ndr) dice che è una terra solare, ma anche una terra del buio e della penombra.
Ruggero: «La Sicilia è una terra complessa. Porta con sé, nella storia remota e recente, elementi di complessità che sono difficilmente interpretabili. Davide parlava di sfida, ecco per noi questa è stata un’altra grande sfida, diciamo da siciliani che hanno colto in prima persona una trasformazione di questa società. Perché nel 1992 io avevo 16 anni, da figlio di magistrato ho vissuto due drammatici momenti storici, le stragi di Capaci e di via D’Amelio, in una maniera diretta. Lì è nato quel seme della reazione che abbiamo visto poi nella nostra società. Vedere a distanza di 26 anni una possibile o reale trasformazione del movimento antimafia, almeno di una parte di questo fronte che si trova rimesso in discussione da un punto di vista giudiziario ma diciamo anche da un punto di vista morale, è una cosa che scuote tantissimo. E credo che sia quello proprio il motore che ci ha spinto a raccontare la storia. Il Maniaci e la Saguto, al di là delle vicende giudiziarie, hanno comunque svolto un ruolo marcato nel contrasto alla malavita su piani diversi ma entrambi hanno una carriera molto importante di antimafiosi».
Davide: «La Sicilia da sempre è una terra di contraddizioni. C’è una grande letteratura al riguardo, non solo cinematografica, ed è indubbio che nel movimento antimafia ci siano spaccature, come dire sia un evento da considerare con tutte le criticità del. Però penso che la docuserie abbia la positività, sia un racconto di speranza, perché allena la coscienza del pubblico ad analizzare la realtà che spesso non è sempre bianca o nera ma richiede una capacità di giudizio, un’analisi approfondita, critica, e questo secondo me è un importante strumento di speranza».
A proposito di speranza, forse è anche per questo che la docuserie si chiude con alcune frasi e l’immagine di Giovanni Falcone.
Ruggero: «Non solo. La prima e più nota è quella relativa al fenomeno mafioso come fatto umano, ma ce n’è una seconda meno famosa, sono le ultime parole della docuserie, in cui riferisce alla possibilità che nel nome dell’antimafia si possano compiere dei gesti che poi non si discostano così tanto dal fenomeno mafioso che si contrasta. Falcone nella sua capacità incredibile di prevedere anche i fatti e quello che sarebbe potuto avvenire,
indica un rischio. Il fatto che non solo la mafia è un fatto umano, quindi in quanto fatto umano può morire, ma anche la stessa antimafia è un fatto umano. Non dimentichiamo che l’antimafia non è un movimento composto semplicemente da figurine, da icone, ma da esseri umani, quindi esposto a una corruzione di ideali, perché in quanto umano è possibile che cada in errori che sono, ripeto, non solo crimini e reati, ma sono anche tradimenti di tipo morale».