Il 5 novembre arriva in streaming la sua serie in dieci episodi
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Così tanto Carlo Verdone non s’era mai visto: cinque ore di film, e per di più da gustare nel salotto di casa nostra! “Vita da Carlo”, la sua nuova avventura, è una serie in dieci puntate di circa mezz’ora ciascuna, che arriva in streaming dal 5 novembre su Prime Video. E quindi la prima domanda (un po’ da “vecchi”, è vero…) non può che essere: di che cosa stiamo parlando? Di cinema, di tv, di altro? «È cinema!» risponde secco Verdone. E allora torniamo a “Vita da Carlo”, che dunque è un filmone, sia pure di strano tipo.
Parte dall’autobiografia (la popolarità di Verdone, strabordante a Roma), si fa immediatamente fiction (Verdone assiste a un piccolo incidente stradale, è circondato dai fan, si lascia sfuggire una dichiarazione d’amore per la sua città che diventa virale, ed è subito: «Vogliamo Carlo sindaco!») e procede mescolando invenzione e verità…
Verdone, quanto c’è sul serio di lei in “Vita da Carlo”?
«C’è l’anima: un 30 per cento di assoluta verità. Molte vicende romanzate, poi, nascono da situazioni di casa, da persone che incontro ogni giorno, dalle mie tensioni, dal lavoro, dalla mia proverbiale disponibilità… Dietro il personaggio di Carlo, amato e celebrato, c’è anche una vita infernale, incredibile, che abbiamo raccontato in maniera spiritosa».
La serie parte da una delusione: Carlo sogna un film d’autore, “L’incrocio delle ombre”, ma il suo produttore vuole invece aggiornare «’O famo strano» in «’O famo anziano»… La voglia di fare cinema d’autore fa parte del 30 per cento di verità?
«Io faccio cinema brillante, o comico, o melan-comico, o come lo si vuole catalogare, ma nella mia cinematografia ci sono pellicole più complesse. “Compagni di scuola”, per esempio, è un film d’autore che taglia i ponti con tutto quello che avevo fatto prima: improvvisamente non c’è più la battuta e la caratterizzazione del personaggio la faccio fare ad altri attori, come Angelo Bernabucci che fa il macellaio… Mi dispiace che siano stati persi tre mediometraggi che girai tra il 1971 e il 1973, “Poesia solare”, “Allegoria di primavera” ed “Elegia notturna”: quelli erano film sperimentali, poemetti visivi con musica, immagini deformate, molta ricerca su colore e inquadratura. In quel periodo frequentavo i cineclub (andavo cinque volte alla settimana…) ed ero molto influenzato dalla cinematografia sperimentale americana, da Andy Warhol, Yoko Ono, Jonas Mekas, Kenneth Anger… Così comprai una cinepresa in Super 8 da Isabella Rossellini (la pagai 70 mila lire, che all’epoca era tanto!) e cominciai a girare film diciamo così “underground”, che non avevano niente a che vedere con quello che avrei fatto dopo. Ne rimase colpito anche Roberto Rossellini: mi disse di far domanda per entrare al corso di regia al Centro sperimentale di cinematografia, e io così feci».
In “Vita da Carlo” si gioca molto sul fatto che tutti vogliono farsi un selfie con lei…
«Il selfie è un regalo allo spettatore, non puoi dire di no. Anche se il momento è poco opportuno. Una volta, a Palermo, parlavo al telefono di una cosa complicata quando uno mi prende la mano e dice: “Un selfie me lo deve concedere!”. Io obietto: “Scusi, mi faccia finire la telefonata”. Lui: “La telefonata? Dopo!”, poi si fa il selfie e se ne va dicendo: “Può continuare la telefonata”... Del resto, gli spettatori con me hanno un rapporto da amico della porta accanto, non c’è quell’autorevole distacco dall’attore che potevo avere io con Gian Maria Volonté quando lo vidi per la prima volta».
E come si comportò?
«Lo avevo visto in “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” e, prima, nei western di Sergio Leone. Mi piaceva per la sua faccia, per la sua bravura, perché sapeva recitare in un film d’azione, ma era anche così vero nel ruolo di quell’inquietante commissario… Un giorno mi pare di riconoscerlo su ponte Sisto. Lascio la Vespa, mi avvicino, capisco che è proprio lui, mi faccio coraggio e gli dico: “Signor Volonté, signor Volonté…”. Lui si volta allargando le braccia come se io avessi avuto una pistola per sparargli. Subito mi scuso: “Non volevo metterle paura. Volevo solo farle i complimenti: è veramente un grande esempio per chi vuol fare l’attore”. Noti che all’epoca non avevo la minima intenzione di fare l’attore... A questo punto Volonté si rassicura e, dandomi del lei, dice: “Grazie, lei è molto gentile”. Anni dopo, durante una cerimonia all’Avana in cui Fidel Castro lo ringraziava per aver contribuito a creare la prima facoltà di Cinema a Cuba, mio padre Mario (Mario Verdone, professore di Storia e critica del cinema, ndr) si sente toccare una spalla, si gira e vede Volonté che gli dice: “Mi scusi, lei è il padre di Carlo? Gli faccia i miei complimenti: è veramente un bravo attore”. Quando mio padre me lo disse, mi venne da ridere: dopo tanti anni Volonté diceva di me ciò che io avevo detto a lui».
Le è mai capitato di ascoltare, non visto, qualcuno che raccontava qualcosa su di lei?
«Nella vecchia casa di famiglia in Lungotevere dei Vallati, lo studio di mio padre aveva una porta a vetri smerigliati con un buchetto da cui si poteva vedere chi c’era in salotto. Una sera del 1980, stanco dopo le prove di uno spettacolo, prima di andare a letto passai dallo studio e guardai dal buchetto chi ci fosse con i miei. C’era gente importante, direttori d’orchestra, pianisti… Dicevano a mia madre cose del tipo: “Ho visto tuo figlio in tv… Ho visto il film… È un attore nato…”. Lei disse: “Carletto ha una marcia in più: è che ancora non se n’è reso conto. Avrà tanto successo, a patto che riesca a governare l’ansia... Anche se per me quell’ansia è benedetta, perché gli dà l’adrenalina per fare lo spettacolo giusto. Il giorno in cui non avrà più paura, non farà grandi spettacoli… Sono molto fiera di mio figlio”. Mi commossi».
Qual è la cosa più falsa che si dice di lei?
«Ci sono due cose, ma parliamo di stupidaggini… Alla prima ormai ho fatto il callo: quando dicono che sono ipocondriaco. Se c’è una persona coraggiosa e che dà coraggio agli altri sono io. Questa leggenda forse s’è creata per “Maledetto il giorno che t’ho incontrato”, perché si parla di due nevrotici con le pasticche, gli ansiolitici… O perché sono un esperto di medicine, ma io ne so perché sono un appassionato “privato” di medicine e farmacologia. La seconda cosa è il mio essere “poco espansivo”. Magari mi vedono fare colazione al bar, serio, in silenzio, e c’è sempre qualcuno che va alla cassa e dice: “Me lo credevo un pochetto più divertente, e invece sta lì con quella faccia come se gli desse fastidio il mondo”. No, sono semplicemente serio, per conto mio… Io credo, spero, cerco di essere sempre disponibile, e mi dispiace di non poter rispondere a tutti quelli che mi scrivono o mi mandano copioni. Non ce la faccio a leggere tutto, non è possibile».
Ogni italiano ha una battuta di Verdone nel suo lessico familiare. Ce n’è una che l’ha stupita per il successo che ha avuto?
«Un attore non è in grado di comprendere il meccanismo che si produce tra la battuta e il modo in cui il pubblico la recepisce. Non avrei dato due lire alla maggior parte delle battute che ho inventato e poi sono rimaste… Certo, sentivo che “’O famo strano” avrebbe fatto ridere: avevo il modo giusto di dirlo, la sigaretta, la partner giusta… E così anche “M’imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana...”, detta finendo con la tirata di sigaretta e quel “drogah”… La sicurezza che la battuta funzioni, però, non ce l’hai mai».
Dov’è nata «’O famo strano»?
«Facendo jogging sul lungotevere. Pensai a due cose. La prima: il titolo del nuovo film doveva essere semplice, doveva essere “Viaggi di nozze”, e su questo non ci pioveva. Poi avevo tre o quattro tormentoni, che mi sono anche appuntato da qualche parte, ma me li sono dimenticati perché mentre correvo nacque “’O famo strano” e mi dissi che era perfetto».
Lei è membro della Academy of motion picture arts and sciences, quindi vota per l’Oscar. Le stanno già segnalando i film per la prossima edizione?
«Sì. Se posso li vedo al cinema, se no mi mandano i dvd o dei link. Per ora non ho visto niente di particolarmente interessante, ma di solito i film “forti” arrivano più avanti».
Nella vera “vita da Carlo”, insomma, c’è ancora il Verdone da cineclub: sempre con un film davanti agli occhi…
«Non è male: si vedono soggetti nuovi, attori nuovi, cambiamenti di linguaggio… È un lavoro anche un po’ faticoso, ma bisogna farlo con disciplina, perché è importante».
A questo punto, direi che lei è molto allenato…
«Sì, certamente».