Tullio Solenghi: «Non ho intenzione di andare in pensione!»

Ripercorre con Sorrisi i 50 anni di carriera che sta festeggiando su Raiuno a "Ballando con le stelle"

Tullio Solenghi, qui con la ballerina Maria Ermachkova, dal 12 novembre sarà al cinema nel cast del film “Free - Liberi”
30 Ottobre 2020 alle 08:44

Signor Solenghi, è in formissima!
«Grazie! Confesso che ho avuto un campanello d’allarme cinque anni fa quando mi ha chiamato l’Inps per annunciarmi che entravo nella famiglia dei pensionati».

Ma non si è “pensionato”...
«Questa parola ha sempre avuto per me l’accezione di “tirare i remi in barca”, passare le giornate a fare l’enigmistica o guardare 85 puntate della serie di turno. Mi sono detto: “Voglio dimenticarmi dell’anagrafe”».

E così prima ha fatto “Tale e quale show”, poi una tournée teatrale e adesso “Ballando con le stelle”.
«Con la tournée Massimo Lopez e io abbiamo girato l’Italia tre volte. Avevamo un’altra ventina di piazze, ma abbiamo sospeso per il Covid. Speriamo di poter tornare».

Milly Carlucci l’ha corteggiata a lungo prima di averla nel suo show.
«Avevo un alibi prezioso, ero sempre in tournée! Quest’anno, visto che era finita prima e che nelle mie scelte artistiche c’è sempre stata una sfida, ho accettato».

Qui la sfida è ballare.
«A questa età veneranda andare incontro a un territorio mai frequentato mi terrorizzava, ma al tempo stesso mi dava eccitazione e adrenalina».

Altre sfide impossibili?
«Una volta, da vero sciagurato, davanti ai 7 mila spettatori dell’Arena di Verona in uno spettacolo condotto da Al Bano e Romina, mi misi a cantare il “catalogo” del “Don Giovanni” di Mozart. Confidavo nel fatto che da giovane avevo preso lezioni come baritono».

Qual è la cosa più ardua del ballo?
«La memoria dei passi. Io ho sempre avuto una memoria teatrale. Quando facevo tre spettacoli nello stesso periodo avevo calcolato che in mente avevo cinque ore di battute. Ma quella dei passi è un tipo di memoria che mi ha spiazzato».¶

Non portava mai sua moglie a ballare?
«Quando eravamo giovani si andava in discoteca, ma erano altri balli. Per il resto ho sempre avuto una vita nomade, sono sempre stato un Ulisse, e, per fortuna, a casa c’era una Penelope ad aspettarmi».

Ha festeggiato 50 anni di carriera. Che cosa vede voltandosi indietro?
«Ho sempre scritto un diario, ho ancora i quaderni di quando andavo in campeggio con i miei genitori a 12 anni. Rileggendoli scopro degli stati d’animo, nella memoria si affollano visi, persone, colleghi, maestri di questa mia professione».

Lei è nato e cresciuto a Genova. Com’è stata la sua fanciullezza?
«Ero un bambino tranquillo, in una famiglia affettuosa. Padre, madre, un fratello. Ogni tanto mi veniva il guizzo di divertire i miei compagni di giochi ed essendo vissuto all’ombra di un campanile, don Giorgio fu il mio primo pigmalione. Ci portava in gita in pullman al santuario della Madonna di Oropa, mi dava il microfono e io dal fondo facevo le imitazioni: Peppino Di Capri, Ruggero Orlando...».

Chi erano i suoi modelli?
«Per il teatro, Alberto Lionello. All’inizio recitai con lui nello spettacolo “I due gemelli veneziani” di Goldoni. Passavo tutte le sere in quinta per assorbire, come uno spugna, i suoi tempi, i suoi gesti. Avrà pensato: “O è matto o è uno che vuole fare questo mestiere”. Per il cinema, ero... dipendente da Alberto Sordi. L’ho anche imitato a “Tale e quale show”».

Poi, come tanti, fu “scoperto” da Pippo Baudo.
«Era già il Pippo Baudo con la missione artistica di “lanciare i giovani”. Nella fattispecie, qui i giovani eravamo io e Beppe Grillo. Ci esibivamo nello stesso cabaret milanese in via San Maurilio, “Il refettorio”. Baudo venne a vederci e disse che voleva portarci in tv. Fu sempre lui a chiamarmi, in seguito, per proporre “Fantastico” al Trio».

Il Trio con Marchesini e Lopez nacque nel 1982, ma l’amicizia con Massimo Lopez era nata da ragazzi.
«In realtà ho iniziato a recitare con il fratello Giorgio (ora un famoso doppiatore, è sua la voce italiana di Dustin Hoffman, ndr), che ha cinque anni più di Massimo. La prima volta che andammo in tournée a Roma mi invitò a casa sua e c’era questa grande famiglia, cinque fratelli tra cui Massimo, un ragazzino che ci guardava con gli occhi spalancati».

Poi venne Anna Marchesini.
«Durante un programma tv a Torino si faceva la lettura del copione in sala prove e la notai subito. Era un’esplosione di toni, ammiccamenti, voci straordinarie. Pensai: “Questa qui dove l’hanno tenuta segregata?”. Avevamo una totale complicità, mai avuta con nessun’altra in scena. Nel nostro secondo spettacolo teatrale io e lei facevamo “i coniugi Vinavil”, marito e moglie attaccati come siamesi che parlavano all’unisono: mai una frazione di tempo fuori posto».

È vero che era molto rigorosa?
«Era grandiosa. La complessità del nostro primo spettacolo teatrale mi spaventò. Dopo i 14 milioni di ascolto di “I promessi sposi” in tv potevamo presentarci in teatro anche solo con tre leggii. Ma lei pretese di inventarsi uno spettacolo tale che ci volevano tre Tir per trasportare le scenografie e due giorni per montarle».

Proprio nel 2020 ricorre il 30° anniversario di “I promessi sposi” televisivi del Trio.
«Nacquero in maniera casuale. Eravamo in tournée a Milano e ci invitarono, dopo lo spettacolo, a una cena di gala. Stavamo mangiando separati, ognuno a un tavolo con altri ospiti, quando Anna si illuminò, venne verso di noi e ci disse: “Vedete quella signora laggiù che voleva che le facessi la cecata (noto personaggio della Marchesini, ndr)? Parlavamo dello sceneggiato sui Promessi sposi di Salvatore Nocita quando mi ha detto: perché non ne fate una parodia?».

I 14 milioni che seguirono le avventure del vostro «Lorenzo, o come dicevano tutti Renzo» che cosa cambiarono?
«In quel periodo la parola Trio era nostra. Non c’era trio d’archi o trio di balletto, il Trio eravamo noi. Del pubblico ce ne rendemmo conto dopo, con le file ai botteghini. Il direttore del teatro Bonci a Cesena ci disse: “Ho visto debuttare tutti, da Gassman ad Albertazzi, ma le file che avete fatto voi, mai!”».

Chi fu il primo a parlare di scioglimento?
«Fu Massimo. Fra noi non c’è mai stato un contratto, ci siamo detti: “Staremo insieme finché ci divertiremo e finché avremo delle idee”. Siamo stati gli unici autori di noi stessi, mai una virgola messa da qualcun altro. Dopo 12 anni si era un po’ spenta la creatività e Massimo voleva tentare una strada per conto suo. Non è stato traumatico. Se c’era un momento in cui dovevamo scioglierci era quello».

Mai stati censurati?
«I dirigenti della Rai si fidavano abbastanza di noi. Soltanto quando ne “I promessi Sposi” volevamo che Renzo fumasse uno spinello con Manzoni ci dissero che era meglio inventarsi un’altra cosa».

Lei ha imitato chiunque, da Briatore a Guillermo Mariotto, da Enzo Biagi a Ratzinger. Risentimenti?
«A “Domenica in” fummo i primi a fare la parodia del calcio con “80° minuto”. Io imitavo Paolo Valenti che aveva questa cosa di muovere molto il capo e una volta gli feci spaccare la scrivania con la testa. Mi chiamò: “Mi diverto molto, ma non farmi spaccare la scrivania!”».

Cosa ha rifiutato in tanti anni di carriera?
«Nel periodo d’oro del Trio mi avevano offerto dei cinepanettoni che ho rifiutato senza nessuna esitazione o rimpianto».

A “Ballando” ha detto che le manca “la telefonata del giorno dopo” di Anna Marchesini. Cosa avrebbe detto vedendola volteggiare?
«“Vieni viaaa!!! Vieni via da lììì!!!”».

Adesso, il giorno dopo, di chi aspetta la telefonata?
«Dei miei nipoti, hanno 3 e 6 anni. Quando ho ballato vestito da torero il giorno dopo ho chiesto: “Vi sono piaciuto?”. E loro: “Ci è piaciuto soprattutto il toro dell’inizio”. Mi ridimensionano sempre, ed è giusto così».

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